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lunedì 4 febbraio 2008

Paolo Nori- Siam poi gente delicata

Leggerlo è il meno. Studiarlo, bisogna: compulsarlo, annotarlo, rileggerlo, destrutturarlo.
Un libro incredibile, le cui ragioni oltrepassano di molto quelle pur nobili di un’impresa letteraria, di una volontà di condividere con altri un delicato moto dell’animo.
Lo scoliaste di fronte a quest’opera rimane prima interdetto, poi infastidito, infine vien colto da un dubbio che si trasforma in rovello: perché?
Perché un editore importante ospita in una sua collana sperimentale un testo siffatto? La pretenziosa struttura paratattica, la commistione così banale dei linguaggi, l’andamento rapsodico di riflessioni libere e legate da associazioni labili organizzate intorno alla metafora del viaggio (meglio, come dice l’autore, di una guida di cui esibisce il fallimento) non inducono prima facie a considerare quest’opera di Paolo Nori una cagata apocalittica? Una segatina da ginnasiale sprovveduto di fronte alla prof (beninteso se la chiamasse professoressa sarebbe tutt’altra cosa)?
La piana, pacifica, definitiva, direi addirittura ingegnosa, inutilità di una opera come questa dovrebbe però farci riflettere. Quel rovello, quel perché, chiedono una risposta, che non può semplicemente consistere nell’ipotesi di un errore. Errore a scriverlo, errore a proporlo, errore a pubblicarlo: troppi errori congruenti.
Il critico deve fare a questo punto parecchi passi indietro, e prendere le mosse da una “vista” sul mondo. Chiedere: “Vi piace? Vi piace quello che vedete?”. Guardate i giovani in branco. Vedete qualcuno con un giubbotto che non sia di color nero o al massimo “perso” come direbbe Dante se tornasse in questo inferno? Guardate i signori ben vestiti, quelli che una volta si chiamavano borghesi: vedete qualcuno sotto la pioggia con qualcosa di diverso da informi palandrane hi-tech?
Viviamo in un mondo in cui un parka azzurro o un montone o un trench spiccherebbero nella folla come inequivoci segnali di una diversità intollerabile, come incitamenti al linciaggio o al minimo ad una emarginazione totale.
Avete appena visto quello che i sociologi chiamano omologazione ed anche, al tempo stesso, l’effetto di un inebetimento generale, di una condivisa e soddisfatta rinuncia a pensare.
Se dunque il mondo è questo, come rappresentarlo? Come consegnare ai pochi ancora in grado di capire e alle generazioni future (se ce ne saranno) una descrizione di questa temperie culturale, di questo scivolare verso il nulla, insomma della fine dell’Occidente?
Lo svagato e inutile trapestare con le parole di Nori ecco che ci dà la misura pefetta di questa devastante deriva. Il suo stile ansimante ed erratico ci descrive meglio di tanti saggi il procedere, gli effetti, i meccanismi del discorso pubblicitario, che è rimasto l’unico compatibile con i tempi e le capacità di ricezione del pubblico.
Quello che sembrava un testo senza capo né coda si rivela non solo un capolavoro, ma una fonte inesauribile di riflessione, un memento, un’accorata e dissimulata preghiera. Leggerlo non basta, dicevo. Resistete alla tentazione di gettarlo nella spazzatura (quella differenziata per la carta) e riponetolo tra la Bibbia e i Cantos di Pound: sarà un viatico nel nostro viaggio tra la desolazione e gli imbecilli.

Laterza, controcanto

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