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POLAROID

domenica 1 novembre 2009

COMUNICAZIONI di SERVIZIO

RISERVATO agli STUDENTI del CORSO di COMUNICAZIONE POLITICA
ANNO ACCADEMICO 2009/2010
UNIVERSITA' di PISA


Sono disponibili alla consultazione, nella sezione "Università di Pisa Comunicazione Politica", il Calendario degli Esami; gli Schemi (2 files Power Point) delle prime lezioni e l'elenco dei Testi

VENDICAZIONI:IN FORMA DI PRESENTAZIONE

ISTRUZIONI PER L'USO

Un pesce enorme, goloso e cattivo sta per ingoiare una piccola barca: quella delle notizie false e confuse, della chiacchera inconcludente, dello sciocchezzaio. L'illustrazione, opera del pittore bolognese Bruno Pegoretti, rimarrà a lungo all'ingresso di questo blog, ma campeggia anche, se pure ridotta e meno leggibile, sulla copertina del mio libro di racconti che esce in libreria in questi giorni. Vendicazioni, appunto: brevissimi sketch, attraverso cui cogliere dolcissime vendette o prefigurare esiti più o meno catastrofici ad un mondo che forse è pronto a sostituirci con cani improvvisamente sapienti. Lo spirito acre e un pò astioso mi accorgo di averlo messo da parte solo quando diventano protagonisti uomini che con il loro fare producono senso e bellezza: artisti come Nicola Zamboni o Bino Bini aprono inaspettati scorci di un mondo diverso, e si placa il dispetto.
Il libro è pubblicato da Manni di Lecce ed una scheda succinta è disponibile alla pagina http://www.mannieditori.it/index_x.asp?id=1270&contenuto=dettaglio_libri.

QUALCHE CONSIDERAZIONE DI DETTAGLIO AD USO DEL LETTORE PAZIENTE

Questi brevi testi -esito a chiamarli racconti- nascono dalla convergenza di uno stato d'animo e di una riflessione critica sul senso della produzione letteraria oggi. Lo stato d'animo, innanzitutto: era, ed è, quello di una esasperazione indignata, di una insofferenza anche un pò sbrigativa nei confronti di forme di vita associata che deploro e detesto ogni giorno di più e che producono miseria, incomprensione, stupidità organizzata e trionfante, intolleranza, tutto tenuto assieme da quella presuntuosa ignoranza e dispetto per la cultura che sembra il tratto distintivo del medioevo prossimo venturo. Ho provato, nello scriverli, il gusto della vendetta della pazienza tradita, il piacere di dare forma sia pure appena abbozzata ad un giudizio sommario che scavalca e dimentica le analisi politiche, le ragioni di una critica a "questa" società che ho coltivato per decenni con studio, impegno,preoccupazione. E' uno stato d'animo prepolitico che non può che far ricorso a forme preletterarie, in cui la finzione narrativa e il gioco dello stile diretto e indiretto, le convenzioni sofisticate cui siamo ormai abituati, insomma tutto l'armamentario del "letterario", cedono alla rozza semplicità dell'invettiva, alla pura ostensività dei fatti, all'apologo. E alla forma dell'apologo ognuno di questi micro-racconti deve qualcosa. Se i fatti sono estratti perlopiù dalle cronache dei giornali locali (ma anche da racconti di amici o da alchimie del vissuto) è per l'assunto provocatorio che nelle notizie minime di vita quotidiana spesso si cela il senso di un giudizio storico severo, addirittura il segreto dell'idiozia universale, della invincibile renitenza dell'uomo associato all'esercizio della ragione e della memoria. Così talvolta il "quod erat demonstrandum" finale si fa palese, assumendo la forma di un sarcastico motto di spirito, di un amaro rendiconto; talvolta rimane implicito in uno sconfortato suggello, come chiusura improvvisa del discorso quando le parole mancano. La mancanza di parole rimanda alla riflessione critica sulla letteratura. Se la forma appena sbozzata è la conseguenza in qualche modo obbligata dello stato d'animo di cui parlavo prima, essa ritengo sia anche, per vie diverse, il punto di approdo (meglio: uno dei possibili) di un modo di fare letteratura che provi a dare un senso ai suoi prodotti. Se la ragione latita, se la memoria si perde, se la sensibilità di tutti è sovrassaturata da impulsi segnali immagini che ci rendono incapaci di concentrazione di attenzione prolungata, insomma del paziente esercizio di quel rito in cui consiste la ricezione del testo, la sua lettura, il lento smarrirsi nei meandri della diegesi, il consapevole apprezzamento degli elementi connettivi che lo innervano e lo sostengono; se la fuga dal mondo in cui consiste la lettura e il suo piacere sono ostacolate e rese impossibili, che senso hanno le vecchie forme se non quello di ribadire e confermare la crescente divaricazione tra una minoranza sempre meno numerosa di lettori colti e addestrati (fatta in buona parte da addetti ai lavori) ed una stragrande maggioranza di analfabeti di ritorno, di anaffettivi per troppe stimolazioni, di ignari, di ignoranti? E' in questa divaricazione che intravvedo il nuovo medioevo, in questa crescente separazione tra i clerici e le plebi indotta promossa e voluta da una società dei consumi che si assume universale e pervasiva ma non per questo meno stolta. Di fronte a tanta abbondanza, a tanto clamore, a tanti segnali mi sono convinto che solo meno di tutto può aiutare: meno cose ma anche meno parole, ridotte all'essenziale, in forma di frammento. Sia la narrativa che la poesia dovrebbero a mio avviso misurarsi con una misura (di tempo di lettura, di attenzione, di nessi interni) fatta di poco, quasi di nulla. Icasticità, essenzialità, semplicità, brevità: togliere, levare, abbassare la voce, approssimarsi al silenzio. Questo mi pare oggi l'impegno più arduo per la letteratura.

JOSEPH BEN MATTHIAS

Joseph Ben Matthias si sporse dalle mura e osservò il piccolo drappello di cavalieri che li teneva sotto osservazione e improvvisamente si accorse dell’ordine perfetto con cui si erano disposti, dei colori uniformi delle vesti che indossavano, dei piccoli scudi tutti uguali appesi alle selle.
Tutti uguali, tutto in ordine, tutti schierati in fila senza che nessuno comandasse o gridasse: era questo il segreto di Roma? L’ordine, l’efficienza, l’organizzazione?
Buffo, pensò, non mi aveva tanto colpito la potenza di Roma quando vi ero arrivato ed ero stato presentato a Nerone. La magnificenza dei palazzi, l’enormità della città, una corte imperiale al cui confronto quella di Agrippa pareva una cosa misera, tutto mi aveva colpito ma non intimorito. Ed ora pochi cavalieri, un particolare insignificante di quella macchina di potere e dominio, mi fanno esitare…
Si sfilò la spada dal collo, ne strinse l’elsa, provò a ricordare quello che aveva provato quando aveva deciso di unirsi agli insorti, di ritagliarsi un ruolo di comando in una guerra che gli era parsa gloriosa. Gloriosa e vittoriosa. In fondo chi avrebbe pensato che per pochi giudei in una remota provincia ci si sarebbe tanto dati da fare? Un compromesso, una indipendenza formale sotto il protettorato di Roma: un accordo, come non trovarlo?
Il trambusto che saliva dal vicolo che portava alla postazione sulle mura fu improvvisamente presente alla sua mente come un monito beffardo: eccoli lì, si disse, a litigare tra loro, a disputare di strategia, a contestare i pochi che sanno di armi e battaglie e che provano a dare ordini.
La piana lungo le sponde del lago era una vista magnifica, e noci fichi e palme punteggiavano quella cortina verde che si parava ai suoi occhi e gli ricordava imperiosa una pace operosa. In fondo perché non trovarla e cullarla sotto lo scudo di Roma come avevano fatto tutti i popoli che conosceva? In quella distesa silente piante tanto diverse prosperavano insieme come nell’impero da cui aveva voluto, lui assieme a tanti altri, prendere orgogliosamente le distanze.
Si riscosse e sospirando guardò gli armati schierati lungo quel tratto di mura: ognuno abbigliato in modo diverso, alcuni con protezioni raffazzonate, qualcuno con pezzi di armatura sottratti chissà dove, tutti con spade archi daghe giavellotti distribuiti senza senso. Pastori, pescatori, mercanti: ecco cosa erano e il febbrile entusiasmo con cui brandivano le armi insolentendo e minacciando gli imperturbabili cavalieri, laggiù, fermi in quell’ordine gelido e tranquillo, gli fece tenerezza e rabbia.
Magdala brulicava di guerrieri improvvisati, di geniali strateghi, di profeti vaticinanti, di popolani indifferenti al delirio degli zeloti e pronti a scendere ad ogni compromesso. Una turba, non un popolo. Una voglia non un progetto li guidava. Neppure un’ombra di strategia e di coordinamento tra città che si odiavano.
E mentre ripensava alle astuzie di cui aveva dato prova a Tiberiade, e non sentiva più l’usato orgoglio, si accorse di guardare con stupefazione le gambe di un ragazzo avvolte da schinieri, come un eroe omerico.
Fu quello il colpo che lo trafisse e lo indusse a lasciare risolutamente la città condannata: da quale tempio, da quale passato, da quale idea, erano emersi quegli schinieri? Per fronteggiare soldati di professione, macchine da assedio, tattiche di combattimento messe a punto in secoli di esperienza, sistemi di trasporto e di vettovagliamento che macinavano centinaia di miglia come niente, con quale coraggio un ragazzo poteva ricorrere a degli schinieri?
Non passarono molti giorni da quella fuga mascherata da ragioni di guerra: Vespasiano si era accampato e fortificato con tutta la perizia e la prudenza che aveva fatto la gloria delle legioni, e suo figlio Tito non tardò ad effettuare una dimostrazione in armi sotto le mura con seicento cavalieri.
A migliaia uscirono da Magdala e si schierarono a caso di fronte alla città, mentre ancora fervevano, tra i capi o tra coloro che si credevano tali, le discussioni sulla strategia da adottare. Erano tanti contro pochi, erano troppi, erano condannati. Ricacciati indietro e fatti a pezzi si rifugiarono verso luoghi che non erano stati previsti, predisposti, organizzati al bisogno, chi verso la città, chi verso il lago, e solo con grande fatica riuscirono grazie al numero a trovare requie.
E mentre nella città rialzavano la testa i tanti che volevano arrendersi, e il confronto si faceva più aspro e si poneva mano alle armi, Tito individuò con occhio sicuro il punto in cui gli sforzi di Joseph ben Matthias, comandante ben intenzionato e incapace, intellettuale inutilmente prestato alle minuzie e alle sottigliezze della guerra, non erano riusciti a completare la missione che si era sconsideratamente dato di fortificare la città. Dalla parte del lago le mura erano incomplete perché tutti avevano considerato impossibile un attacco in forze da quel lato. E come a Masala, dove di lì a pochi anni si sarebbe dimostrato che non esiste luogo imprendibile per un popolo di ingegneri edificatori e muratori, così, con tanta maggiore facilità, a Magdala si parò di fronte agli attaccanti un mezzo per forzare l’ingresso.
Oltre seimila furono i morti: e molti furono coloro che si illusero, salendo sulle barche che erano pronte, di essere scampati ad un esercito che non aveva con sé alcuna imbarcazione. Con ordine e imprevista perizia i genieri si diedero a costruire zattere su cui presero posto i soldati e da quelle piattaforme, stabili e sicure, massacrarono con metodo e professionalità gli improvvisati guerrieri, che nel momento supremo, di fronte alla morte, tornarono per un attimo contadini pastori pescatori e mercanti.
Joseph ben Matthias, sopraffatto dal rimorso, dimenticò pian piano di essere stato un generale inetto. Riuscì ad evitare la morte per mano del nemico e il suicidio cui alla fine si abbandonarono gli ultimi scampati grazie alla sua esortazione a non togliersi da sé la vita, ma a farsi uccidere ognuno da un compagno. Rimase ultimo e vivo. E perdonato divenne, da allora, Flavio Giuseppe.
Quanto agli altri, agli innumeri altri, senza nome, non fu per il coraggio dimostrato, che non vennero dimenticati, ma per la follia di porsi contro Roma senza una strategia militare, senza preparazione, senza alleati. Fu il pressappochismo e l’orgogliosa incapacità di fare della guerra un mestiere a consegnarli alla storia e alla nostra stupita memoria.
inedito

MORTE DI RUPERT BROOKE

Rupert Brooke morì in un giorno di aprile del 1915, a ventotto anni, nel silenzio della baia di Tris Bukes, mentre il convoglio di cui faceva parte la sua nave era diretto verso l'insospettabile e inatteso macello di Gallipoli: inglesi e francesi avrebbero scoperto Mustafa Kemal e la rinascita turca e Churchill la sua prima sconfitta. Un destino derisorio l'aveva deposto nell'unica isola in cui un eroe omerico aveva tentato invano di sottrarsi alla guerra mentre lui ci sarebbe riuscito morendovi.
La nave ospedale aveva dato fondo in quell'ancoraggio tranquillo la sera prima, e Skiros era apparsa a lungo sfolgorante con le sue case bianche aggrappate al cono perfetto della montagna, illuminata con violenza dagli ultimi barbagli di sole mentre in basso la notte avanzava come un manto di velluto che ricoprisse in un silenzio stupefatto la terra.
Quello era l'Egeo, quella notte era quella cantata da Omero e fu l'ultima che vide prima dell'incoscienza e del riposo tra le ombre. Dimenticò insieme i mari del sud in cui aveva viaggiato, e la sua Taatamata, dimenticò di aver pensato di restare lì per sempre, come Stevenson che aveva invidiato e detestato, dimenticò i suoi vagabondaggi attraverso una Francia e una Germania ancora in pace, dimenticò il King's College e i suoi compagni e le serate alla Fabian Society e Ka Cox.
Dimenticò tutto per concentrarsi su quella baia immortale cui non sapeva di essere destinato, sulla notte che scivolava sulle rena bianca e così incredibilemte fine. Come un vaporoso tappeto tra il nero del mare e il verde cupo della macchia profumata di timo: e su quella rena vide le orme di piccoli piedi, e udì lo scalpiccio di fanciulle che correvano, e le loro grida di gioia a giocare, rincorrersi e afferrare Achille cui nel turbinio di quel girotondo si sollevavano le vesti femminili.
Quelle cosce muscolose, quei genitali intravisti: non era stato meglio amare gli uomini? Le donne lo avevano solo fatto soffrire, lo avevano deluso, abbandonato. Fece in tempo a cogliere in quel silenzio che circondava la nave, ora che si era quetata ogni manovra, la voce di William Browne che gli recitava i suoi versi:
If I should die, think only this of me:
That there's some corner of a foreign field
That is for ever England. There shall be
In that rich earth a richer dust concealed...

A Skiros, in una piazzetta affacciata sul mare, in cima al paese, la statua di un giovane guarda verso la distesa di luce che si apre tutto intorno: Magazià e la spiaggia subito sotto e più oltre, a perdivista, il blu inebriante attraverso cui traspare nero il profilo accennato delle altre isole.
E' Rupert Brooke, bello come un Apollo, il poeta più generoso d'Inghilterra, come avrebbe poi detto Yeats. Anelava a morire sul campo di battaglia ed era invano sopravvissuto alla ritirata dalle Fiandre, aveva molto amato, molto viaggiato e aveva già detto tutto nella poesia che aveva scritto l'anno prima, con cui inconsapevolmente aveva chiesto ciò che non voleva.

Era la poesia che la sera di quell'aprile gli stava sussurando Browne per aiutarlo ad intraprendere un troppo lungo viaggio. Lui era quel corpo inglese, e poco dopo lui sarebbe stato quella polvere così ricca. Come un eroe omerico la mattina dopo lo avrebbero bruciato su una pira di legno d'ulivo trasformando per sempre un angolo di Grecia, nella baia incantata di Tris Bukes, in un pezzo di Inghilterra.

Prima di morire, nella notte, avrebbe udito un grido di civetta e immaginato Atena che lo chiamava. Capì troppo tardi che gli dei talvolta esaudiscono i desideri dei poeti alla lettera.

inedito

martedì 6 gennaio 2009

RECENSIONE A "LA GUERRA CORSARA" DI GIORGIO PIETROSTEFANI

Giorgio Pietrostefani pubblicando La guerra corsara: forma estrema del libero commercio ha senza dubbio percorso un’altra tappa del suo cammino di riflessione sulle forme del capitalismo: sulla sua genesi, come attesta l’altro libro dedicato alla tratta degli schiavi ( La tratta atlantica. Genocidio e sortilegio, sempre uscito per Jaca Book nel 2000), ma anche sulle sue forme attuali ( Il sistema droga. Per capire le cause e punire di meno, uscito nel 1998). Ma il filo che lega i diversi temi è anche più evidente: non tanto le forme del capitalismo, ma quelle forme che sono legate al commercio, allo scambio, ai meccanismi ideologici della libertà del mercato. Che si tratti oggi di droga e ieri di schiavi o di “buone prede” conquistate da corsari, la sua attenzione si concentra sui processi di scambio e sul modo in cui i loro protagonisti ne vivono limiti condizioni e opportunità.
Nelle sue opere Pietrostefani ci ha abituato a titoli parlanti, come accadeva una volta. E il suo ultimo libro aggiunge un sottotitolo oltremodo esplicito, che dà piena ragione di quell’attenzione, mettendola anzi ostentatamente in primo piano: se la guerra corsara è la “forma estrema del libero commercio”, ecco confermata quella ipotesi di lettura e al tempo stesso quel percorso di studio e riflessione.
A una linearità così confortante, che in qualche modo retroagisce su quanto sappiamo della storia dell’autore (sul suo passato di leader nelle lotte studentesche, sulla sua trasfigurazione in dirigente d’azienda, sulla sua vicenda giudiziaria che improvvisamente devasta la normalità dei una vita qualunque con un emblematico ritorno del rimosso), trasformando ancora una volta Pietrostefani in un maturo signore che dopo una vita turbolenta si dedica a studi storici bisogna però opporre il sospetto fondato di impulsi e motivi niente affatto in sintonia con un taglio “accademico” che pure la sua ricerca possiede. Nell’ultimo libro una scrupolosa documentazione, una bibliografia accurata, una puntigliosa rassegna di fatti ed episodi contribuiscono ad avvalorare senza dubbio quel taglio.
Ma il sospetto rimane. Anzi la certezza, se diamo il giusto peso a quello che l’autore confessa nella premessa, quando dice che “tra i motivi di questo lavoro c’è anche un’irrazionale pulsione” che lo ha spinto a “trattare gli avvenimenti senza il necessario distacco”. Sono appunto “tutti quei pirati, corsari e bucanieri che hanno fatto sognare generazioni di ragazzi”.
Ecco dunque uno dei motivi impuri: sogni di ragazzi, forse quelli che danno vita alla letteratura. E mescolare storia e letteratura ( ma in un orto controllato: quello delle biografie) oggi si fa, però con il rischio di non produrre né l’una né l’altra, e di inimicarsi e gli storici e i critici letterari. Certo ci sono i grandi storici che sono grandi letterati perché “scrivono bene”: Braudel o Michelet ( e da noi, anche se ad opportuna distanza, un Giorgio Spini) ne sono rappresentanti illustri.
La cosa affascinante del libro di Pietrostefani è la noncuranza di tutto ciò: alla tesi interpretativa (che risulta di grande interesse come vedremo) accosta i fatti e le argomentazioni necessari a consolidarla con un procedere divagante e divertito, ma soprattutto meravigliato. Gli episodi si affastellano con le statistiche: descrizioni di battaglie e di scorrerie sono inframezzate da puntigliose tabelle con il valore delle prede e con le somme investite. La grande storia d’Europa rivive attraverso le poco note ripercussioni sulle città marinare, sui traffici marittimi, su quella “linea di confine” mobile e insicura in cui gli Stati ancora non avevano un potere indiscusso e pieno.Una storia vista dal mare, in cui anche i grandi episodi delle esplorazioni e delle scoperte si inseriscono nel gioco minuto degli interessi, dei commerci, delle appartenenze.
Dicevamo della tesi che attraversa il libro e riconduce ad unità le sue parti. Sui rapporti tra pirateria e meccanismi di accumulazione del capitale sono già state dette cose interessanti, con riferimento soprattutto al mondo antico. Pietrostefani però concentrando la sua attenzione sulla attività dei corsari scandaglia uno snodo decisivo per l’avvento del capitalismo moderno: lo snodo tra guerra, stato e commercio. Guerra perché i corsari esercitano legittimamente la loro attività solo ai danni di un nemico riconosciuto, stato perché essi esercitano una attività in “regime concessorio”, cioè su esplicita autorizzazione di una entità politica che non può che essere lo stato, commercio perché si tratta di una attività “privata”, svolta dagli stessi soggetti che in tempo di pace si presentano come mercanti.
Un incrocio di temi e suggestioni di grande importanza, che viene affrontato postulando un rapporto organico tra consolidarsi dello stato e delle sue forme organizzative e iniziativa privata. L’apporto forse più stimolante delle riflessioni di Pietrostefani non sta tanto nell’investigazione dello scontato effetto economico della guerra di corsa (basta pensare agli effetti di lungo periodo della sottrazione di imponenti ricchezze provenienti dall’America sulla Spagna), ma nella messa in luce e nella documentazione del rapporto di collaborazione , oggi si direbbe di partnership, tra privati e poteri pubblici.
E qui è forse opportuno dire qualcosa di più sul valore storiografico del lavoro di Pietrostefani. Della noncuranza poco accademica si è detto, e da quel procedere per accumulazione di episodi nasce una capacità di raccontare interessare e avvincere la cui parentela con la letteratura è cosa che salta agli occhi ad una prima lettura. Però non sfugge ad un esame più attento la portata innovativa di quel mettere in relazione cose che normalmente gli storici trattano separatamente, nell’ambito di specialismi ben codificati: da una parte gli storici della navigazione e delle scoperte, quelli delle istituzioni marittime (è ben nota l’importanza del commercio marittimo nella modellazione di istituti giuridici e forme organizzative che hanno poi investito il resto della società), dall’altra quelli della “grande storia”. Questa capacità di “leggere i legami” permette ad esempio a Pietrostefani di illuminare meglio di quanto non si faccia normalmente il senso di quella “libertà olandese” che costituisce ancora oggi un problema storiografico aperto, tracciandone i rapporti con lo spirito di indipendenza della gente di mare e con l’insofferenza nei confronti di vincoli al commercio che avrebbe portato prima i “pezzenti del mare” a dare un contributo decisivo alla lotta contro la Spagna e poi a dare veste ideologica alla libertà conquistata.
Sin qui però nulla di veramente nuovo. Per capire il senso dello sguardo diverso sulla storia che Pietrostefani ci invita a dare bisogna tener presente innanzitutto che il libro è dedicato non alla guerra di corsa in genere, ma a quella esercitata sugli oceani. Insomma non si parla del Mediterraneo dove pure i corsari hanno spadroneggiato sino all’inizio del XIX secolo, e dove hanno dato vita a forme statali (gli stati barbareschi) assolutamente originali. Si parla degli oceani perché la storia moderna inizia lì: con la mondializzazione che per la prima volta consentiva di effettuare scambi (non solo di merci) a livello planetario, e con la conseguente formazione degli stati moderni, Francia e Inghilterra in primo luogo, che dagli oceani hanno tratto non solo ricchezze, ma capacità di “proiezione all’esterno”, e nuove forme amministrative e giuridiche (nulla come una flotta oceanica- e Pietrostefani lo spiega benissimo- richiede burocrazia efficiente, contabilità ineccepibile, mezzi finanziari imponenti, logistica inappuntabile e disponibile su scala mondiale: scali, cantieri, basi), ponendo le basi del sistema coloniale dei grandi imperi.
Lo snodo allora tra guerra commercio stato e iniziativa privata è appunto quello che ha dato forma al mondo quale sostanzialmente lo viviamo oggi. E’ un “sistema” che ci si dispiega davanti man mano che si procede nella lettura: allora i “pirati della regina”, i Drake, gli Hawkins, non sono più i profittatori, geniali quanto si voglia, di una politica incerta e altalenante (quella della regina Elisabetta nei confronti della Spagna), ma gli strumenti di una strategia che andava delineandosi di alleanza tra le forze mercantili e lo stato ancora medievale per far nascere il nuovo che premeva: uno stato moderno, appunto, con la sua flotta da guerra e il suo “impero” e quella cosa che poi abbiamo imparato a chiamare capitalismo. I corsari contribuivano da una parte ad una accumulazione primitiva con mezzi formalmente legali, dall’altra rafforzavano lo stato nella sua organizzazione e nella sua proiezione di potenza.
Ed ecco che diventa attuale anche il tema della “collaborazione pubblico-privato”: chi avrebbe detto che un argomento così di moda oggi (con quelli correlati della flessibilità, dell’outsourcing etc.) trovasse il suo fondamento in esperienze così ben strutturate e così lontane nel tempo?
Pietrostefani (forse sornionamente) documenta questo aspetto in maniera impressionante: gli apporti di capitale, le forme di gestione, l’utilizzo delle “risorse umane”: flessibilità voleva ad esempio dire, per gli equipaggi, disciplina meno severa, partecipazione agli utili, temporaneità degli ingaggi, passaggio senza formalità dal lavoro su un bastimento da carico o su un peschereccio a quello su una nave (spesso la stessa) armata per la guerra di corsa.
Pietrostefani si spinge sino ad esaminare, agganciandola al filo del ragionamento complessivo, la nascita dei primi “stati privati”, quelli cioè gestiti, sempre in regime di concessione, dalle Compagnie costituite originariamente per il commercio oceanico, e poi trasformatesi in vere e proprie strutture politiche, di cui l’esempio più noto è quello della Compagnia delle Indie, con il suo esercito, la sua flotta, e naturalmente il suo governo.
Se pensiamo di nuovo ai motivi di questo percorso di riflessione intrapreso dall’autore forse dobbiamo aggiungere, a questo punto, a quella confessata ammirazione per lo spirito di libertà e d’avventura che pirati e corsari hanno saputo suscitare non solo tra i ragazzi, una preoccupazione più attuale, che salda la sua attività di studioso oggi a quella, ieri, di dirigente politico.
Ragionare sul capitalismo e sulle forme del commercio, anche a partire dalla guerra di corsa, significa infatti ragionare sull’oggi, sui cambiamenti che stiamo vivendo ma anche su quello che permane immutato: e non sono tanto alcune “spie” terminologiche (l’uso di termini connotati politicamente quali “aristocrazia operaia”, “lotta di liberazione” etc.) che ci confermano in questo nuovo sospetto, ma proprio l’impianto dell’opera, quel suo mettere in relazione cose diverse sullo sfondo di una globalizzazione che nasce e si impone e cambia per sempre il mondo.
Nulla di più falso dell’imperturbabilità dello storico. Arnaldo Momigliano presentando la capitale opera di Ronald Syme sulla rivoluzione romana, terminata nell’estate del 1939, diceva che “il libro afferrava il lettore, stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, tra la conquista del potere di augusto e il colpo di stato di Mussolini”. Questa capacità di farci leggere in filigrana il presente Pietrostefani ce l’ha tutta. Non basta certo a fare un grande storico, ma il suo contributo è di quelli destinati a restare.

Pubblicato su Aprile, 2004