PIEVE

PIEVE
POLAROID

sabato 5 maggio 2012

MOSTRA DI POLAROID

Venerdì 18 maggio alle ore 18,30 si è inaugurata alla Pinacoteca Civica del Comune di Pieve di Cento la mia mostra di Polaroid.
La mostra è curata da Graziano Campanini, e il catalogo reca anche il contributo di Diego Maria Macrì, noto fotografo bolognese, oltre a quello del curatore ed ad una mia breve presentazione. Umberto Saraceni accompagna e commenta con un video le foto esposte.
La mostra ha avuto in sorte dopo solo tre giorni un terremoto. Le foto sono dunque rimaste prigioniere di un museo attualmente inagibile. Il Comune si è impegnato a riaprire ai visitatori la pinacoteca quanto prima.





 CONTROFATTUALI, OVVERO CIO’ CHE POTEVA ESSERE E NON E’ STATO

Per Giovanni Michelucci


Io sto progettando un ospedale che cerco di rendere gradevole.
Giovanni Michelucci, Non sono un maestro


Giovanni Michelucci era un architetto che cominciò dal mestiere e dal mistero del costruire e lungo l’Ombrone a Pistoia vagava per campi e boscaglie, apprendendo misura e bellezza; e quando divenne architetto si accorse che ciò non bastava e che occorreva ripensare le città e non bastandogli neppure questo che bisognava, semplicemente, tornare a pensare agli uomini.
Si dedicò così ai luoghi in cui gli uomini entrano in relazione tra loro, ai punti di scambio, di incontro, la stazione di Firenze prima e poi la chiesa dell’autostrada, e i mercati e tante altre realizzazioni, tanti progetti, tutti animati dall’idea che la bellezza fosse la conseguenza di un sistema di vita alternativo. Diceva pure di esser convinto che l’architettura come opera singola individuale fosse finita e che doveva lasciar posto ad una architettura come opera corale.
E arrivò alla fine a pensare ai luoghi dell’esclusione: alle prigioni, agli ospedali, andando con le sue idee contro tutti, ma aprendo uno spiraglio su come la vita potrebbe essere. In anticipo sui tempi, precursore o visionario, non smise mai di ricercare e di pensare.
Il volto scavato e grifagno era quello di un toscano antico, dello stampo di un guelfo o di un ghibellino, coraggioso, orgoglioso e perdente. Nessuno gli commissionò un ospedale, ben sapendo che avrebbe stravolto le linee di una razionalità priva di grazia e ripetitiva e che avrebbe cercato di aprire l’ospedale alla comunità. Ma ci fu un momento in cui motivi e destini diversi si incrociarono facendo sì che una commessa gli pervenisse, finalmente, già in là con gli anni, da una città antica più simile alla Pistoia della sua infanzia che ai grandi agglomerati urbani come Firenze. E progettò l’opera, disse poi, assieme alla città, coinvolgendo gli abitanti e i tecnici, i medici, gli infermieri, guidato dall’idea che il malato dovesse non sentirsi più isolato e che la città doveva penetrare nell’ospedale. “Aprire gli ospedali, le carceri e persino i cimiteri”, diceva e quando i lavori iniziarono sentì che la sua opera poteva dirsi conclusa, e sapendo che avrebbe dovuto combattere contro le insidie della burocrazia, dei finanziamenti scarsi, dei ripensamenti, delle norme in continuo cambiamento, si impose la pazienza e la dura umiltà dei coraggiosi. Aspettò anni, il volto sempre più scavato, attendendo il suo ospedale che già faceva discutere nei testi di architettura. Le dita affusolate frullavano senza posa su pagine e pagine, in cui abbozzi, disegni, scorci anticipavano la bellezza di un’opera che non riusciva a vedere conclusa.
E non ce la fece. Non riuscì a vederlo finito. E ci vollero ben più di trent’anni, per terminarlo aprirlo e dimenticarlo, quell’ospedale, l’unico progettato dal grande architetto.
Era a Sarzana l’opera in corso e la piana, che porta al mare, era ancora riconoscibile. Tra la foce della Magra, i contrafforti del monte Caprione che prelude al Golfo dei Poeti, e le le ripide cime delle Apuane ammantate di nuvole, la campagna resisteva: a piedi o in bicicletta si percorrevano sentieri che mantenevano intatto, pur nelle tumultuosa modernità che avanzava, il carattere di una economia basata sull’agricoltura e sull’allevamento. E laghi e canneti accompagnavano da lontano il corso del fiume. Luni, non più visibile dal mare, la sentivamo oscuramente presente, e il pensiero correva a Rutilio Namaziano e allo splendore di marmi al tramonto dell’impero.
Si era alla fine degli anni sessanta del secolo scorso ed io, arrivato da un’Umbria turrita e fosca, ammiravo estasiato quell’improvviso alternarsi di vedute e scorci di mare e fiume e campi coltivati e ignoravo che la catastrofe andava addensandosi: Sarzana era ancora ricca di intelligenze e quando si pose il problema di costruire un nuovo ospedale ebbe il coraggio, grazie e politici entusiasti e disposti a pensare, di rivolgersi grandi architetti, con una visione moderna della sanità: e dopo aver interpellato Alvar Aalto, già impegnato, si rivolsero a Giovanni Michelucci.
Questo è l’antefatto, in cui io non compaio se non come ammiratore prima di luoghi che sentii miei e poi deluso spettatore dei cambiamenti che avvenivano e che andavano trasformando una città felice e a misura d’uomo in un frenetico mercato. Presi da una furia commerciale e mercantile e privi di quelle guide che uscite dalla Resistenza avevano garantito un equilibrio nello sviluppo della città i sarzanesi si trovarono a un tratto circondati di orribili costruzioni, di svincoli e parcheggi che garantivano lavoro e favori a spese di una comunità che scompariva.
Arrivai nel 1991 a dirigere le strutture sanitarie e conobbi il perchè di un enorme scheletro in cemento che contro ogni logica restava, lungo la strada di accesso al centro, senza cambiamenti da anni, e conobbi la storia dell’ospedale nuovo e soprattutto feci la conoscenza con un piccolo gruppo di persone rimaste ostinatamente a difendere il progetto e intenzionate a portarlo a termine. Paola Gari e Pino Lena soprattutto, residuo del gruppo dirigente che aveva voluto quell’ospedale, che aveva condiviso quella visione, ma anche tanti altri che pur silenti erano pronti a mobilitarsi.
E Giovanni Michelucci era appena morto, ed io non feci in tempo a conoscerlo. Era morto nel 1990, a quasi cent’anni: io arrivai nell’estate dell’anno seguente, e mi misi subito al lavoro con la squadra che aveva mantenuto per anni, nonostante i cambiamenti, fermo il ricordo e l’impegno.
Sentivo Michelucci interpellarmi personalmente, come fosse ancora vivo e si rivolgesse a noi come sua ultima speranza. Divenne un’ossessione, tentare di porre rimedio ai ritardi accumulati per errori, insipienze ma soprattutto per ruberie, corruzione, e accomodante assenza di controlli.
Era una delle famose “cattedrali” non terminate, destinate ad essere demolite o dimenticate. E mentre cominciava la celebrazione dell’umanizzazione degli ospedali e dei diritti degli utenti, anzi dei cittadini in quanto tali e non in quanto malati, tutto congiurava a trasformare in uno slogan la volontà così imperiosamente proclamata.
In Italia il modo migliore per dare una risposta nei fatti contraria a quel che si dice è appunto dirlo a gran voce. Si scoprivano i manager, si riorganizzavavo le linee di produzione ripensando la rete ospedaliera per razionalizzarla: razionalizzazione, produzione, riorganizzazione…
In sanità concetti da maneggiare con estrema cautela, rispettosamente: ma cominciò allora, viceversa, una vera e prorpria trasformazione degli ospedali, da luoghi di cura in fabbriche in cui si misurava la produttività con numeri come l’indice di occupazione dei posti letto e la durata della degenza. Ogni rapporto con la logica saltato, la fabbrica era vista e pensata dai programmatori regionali e statali come qualcosa che per giustificare la sua presenza doveva impiegare al massimo i fattori produttivi, dunque richiedeva malati da trattare contro il buon senso che affermava timidamente che lo stato di salute di una comunità si misura appunto dal fatto di non aver bisogno di ospedali. Si proclamavano verità che nella realtà si contestavano e dunque anziché compiacersi del fatto che un’ospedale non figurasse come una macchina sempre in moto, ma restasse a presidio di patologie conclamate o per far fronte ad eventualità ed emergenze, si lamentava la scarsa produttività. Cercammo di contemperare le richieste che provenivano dall’alto con l’idea originale di Michelucci. Reperimmo i fondi mancanti dando dimostrazione della serietà e determinazione della nuova direzione, denunciando l’impresa e i direttori dei lavori che avevano chiuso gli occhi anziché controllare, e cercammo di difendere come si poteva un grande cantiere abbandonato a se stesso da ladri e da vandali mentre contemporaneamente si provava a resistere a richieste continue di riorganizzazione degli spazi. Michelucci mi perseguitava, e a fatica trovammo dei compromessi che non stravolgessero troppo le sue idee, in cui gli ambienti, la luce, la disposizione dei mobili, tutto era pensato in nome di quei diritti al rispetto del cittadino e al sostegno dei lavoratori che cominciavano a diventare parole d’ordine proprio mentre venivano nei fatti rimosse. Spazi di incontro, di socializzazione, di riposo per gli operatori: tutto dovemmo difendere con le unghie e con i denti, tra critiche crescenti e orribili superfetazioni commerciali favorite da una nuova classe dirigente, povera di idee e incapace di vedere la miserevole riduzione della piana ad una distesa di capannoni, in cui, morta la campagna, trionfava l’affarismo più bieco, fatto di scambi inconfessabili.
Ed è giusto che Sarzana, oggi irriconoscibile, si sia data a speculazioni su terreni e indici di abitabilità affidandosi ad un architetto di grido, di quelli che sanno come marcia il mondo, che sanno vendere, che inseriscono come una coltellata improvvisa nel corpo della città inedite ed inutili ed incongrue bellezze, buone per tutti gli usi e per tutti i paesi.
E se pure con tutte le limitazioni e gli stravolgimenti apportati al progetto l’ospedale è stato alla fine inaugurato ed aperto, mantenendo una traccia di quella bellezza che proviene dalla verità a cui Michelucci si era votato; se pure tra un centro commerciale e con la piazza che doveva aprirsi alla città desolantemente vuota, c’è una luce che ancora brilla in un luogo in cui gli uomini soffrono, sento che Michelucci non è quietato.
Dalla sua tomba nel parco della sua casa, a Fiesole, vede dall’alto del colle che non è più tempo di architetti o forse che il suo tempo non è ancora arrivato. Io, personalmente, sento il successo di aver condotto l’opera al termine come un tradimento: e lui continua a guardarmi corrucciato e insoddisfatto.