PIEVE

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POLAROID

giovedì 7 febbraio 2008

INTRODUZIONE A DIARIO DI PRIGIONIA

Umberto Saraceni, Diario di Prigionia, Minerva Editore, 2002


INTRODUZIONE

Essere soldato, essere soldato
Tolstoj, Guerra e Pace


L’otto settembre 1943 ad Agrinion, capoluogo dell’Acarnania e sede del comando dell’VIII Corpo d’Armata italiano in Grecia, si aprì su una giornata bellissima: il monte Panetolikò ad oriente si stagliava sul cielo azzurro e l’odore pungente del tabacco, che pervadeva tutta la città, era particolarmente forte in Odos Suliou . Al n.41 in una bella casa, appunto sopra uno dei grandi magazzini che rifornivano le fabbriche di Papastratos, alloggiava un capitano italiano, magistrato presso la sezione di Agrinion del Tribunale Militare di Guerra di Atene.
Da tempo la guerra aveva lasciato il posto ad una sorta di pace ambigua, che con la fine delle operazioni militari, le strette relazioni che gli occupanti italiani intrattenevano con la popolazione, il confronto continuo con il comportamento sprezzante dei tedeschi, andava configurando una precaria normalità, cui soldati ed ufficiali si attaccavano quanto e forse più dei greci. I partigiani, già attivi, si limitavano ad operare sui monti e comunque per il momento selezionavano gli avversari: era per questo che la Bianchi gialla del Tribunale ( color sabbia, ma ad Agrinion la conoscevano tutti come la macchina gialla, kìtrino aftokìnito) poteva attraversare senza pericolo la gola di Klisura e arrivare a Missolungi e tornare.
Tra la pace e la guerra, in quel clima sospeso, si preparava l’uscita dell’Italia dal conflitto, che il 25 luglio pareva aver reso possibile, si pensava già al ritorno e intanto prendeva sempre più corpo il mito dell’Armata Sagapò, alimentato dalle storie d’amore che erano nate e che in molti casi sarebbero continuate dopo la guerra ma più ancora dalla reazione dei greci, padri, familiari, opinione pubblica: le ragazze e le donne potevano essere disapprovate, ci si opponeva spesso a legami che si immaginavano senza futuro, ma mai vennero emarginate e additate al pubblico odio come invece avvenne in tanti altri teatri di guerra.
Il capitano che si era installato in quella bella casa nell’ottobre del 1941 vi aveva trovato una famiglia cui si era subito affezionato e per l’appunto anche tre sorelle, della più giovane delle quali, che al suo arrivo aveva appena 14 anni, si era ben presto innamorato.
Si chiamava Umberto Saraceni, veniva da Orvieto, e pur essendo figlio di una medaglia d’argento al valor militare, morto eroicamente, da capitano come lui, nella guerra precedente, aveva coltivato gli istinti guerreschi il meno possibile: come tenente dei carabinieri, assegnato alla Legione di Tirana, aveva combattuto, appena mobilitato , in prima linea tra Grecia ed Albania. Tornato in Italia ed entrato nel corpo della Giustizia Militare dopo una prima permanenza a Verona era stato assegnato ad Agrinion, dove se il grande lago a sud della città gli ricordava talvolta la sua Bolsena tutto il resto avrebbe dovuto ribadirgli il suo essere estraneo, la sua condizione di occupante, la lontananza dai luoghi che amava. Ma aveva dimostrato rispetto per la popolazione civile, aveva esercitato le sue funzioni con un senso profondo di umanità e di giustizia, si era fatto benvolere e ben presto aveva cominciato a sentirsi quasi a casa, così come stava capitando a tanti dell’XI Armata in Grecia.
Mentre sugli altri fronti la guerra prendeva per l’Italia una piega tragica e i tedeschi già da luglio avevano pronti i piani per mettere in condizioni di non nuocere gli alleati, l’estate passava in attesa.
La sera dell’otto settembre arrivò la notizia dell’armistizio e il giorno dopo dal Comando di Atene l’ordine di consegnare le armi pesanti ai tedeschi. Da Agrinion, sede del comando dell’VIII Corpo d’Armata, l’ordine venne diramato a sua volta alle unità dipendenti, tra cui la Divisione Acqui di Cefalonia.
Da quel nove settembre hanno inizio le vicissitudine raccontate in questo diario, scritto su minuscoli quaderni conservati gelosamente e difesi a rischio della vita per due lunghi anni. Con l’inganno e con la forza, dalla Grecia e dalla Jugoslavia, dalla Francia, dall’Italia stessa, centinaia di migliaia di soldati ed ufficiali vennero dai tedeschi catturati, disarmati e raccolti in campi di concentramento in Polonia e Germania, dove non avrebbero avuto riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, con i diritti e le garanzie che ne conseguivano, ma quello ambiguo e ricattatorio di Internati Militari Italiani, che con una semplice dichiarazione di adesione alla RSI avrebbero potuto liberarsi e tornare a combattere a fianco dei tedeschi.
Ciò che rende straordinaria l’avventura dei militari italiani deportati in Germania è appunto questo: il fatto che sarebbe bastato poco per sottrarsi ad una prgionia dura e che, come questo diario testimonia, sarebbe diventata sempre più dura nell’intento di convincere i riottosi italiani a più miti consigli. Di circa 650.000 italiani catturati solo il 10 per cento optarono per la RSI: tutti gli altri ostinatamente si rifiutarono e 70.000 di essi non fecero ritorno.
Da quel rifiuto non solo le forze armate ma l’Italia stessa trasse alimento e forza per ricostruire un senso di identità nazionale dopo la guerra. Uniti da quel “no” testardo ufficiali e soldati si trovarono accomunati, al di là di divisioni di classe, di cultura, di ceto, in una stessa visione del loro futuro. Fu un rifiuto esercitato senza ideologismi, senza proclami, con l’eroismo inconscio e naturale dei veri soldati: quello che faceva ammirare al conte Pierre Bezuchov in Guerra e pace l’ostinato e pacifico coraggio dei soldati russi impegnati contro i francesi invasori.
Fu certo la qualità del nemico, il fastidioso senso di superiorità e il disprezzo esibito nei confronti degli italiani, a cementare quel rifiuto, quell’insistito e quasi snobistico rimanere fedeli al giuramento prestato.
Di quell’inferno il capitano Saraceni fece con un coraggio ed una forza che ignorava di possedere tutte le tappe: un viaggio attraverso l’Europa intera, da Altengrabow a Siedele, a Sandbostel a Fallingbostel, iniziato il 21 settembre 1943 ad Agrinion e terminato il 3 settembre 1945 con il ritorno in Italia. Due anni in cui con tranquilla ostinazione avrebbe continuato a riaffermare le ragioni del diritto, istituendo e difendendo un ufficio giustizia attraverso cui non solo punire i reati commessi all’interno dei campi ribadendo l’estraneità dei prigionieri alle leggi tedesche, ma anche prendere nota dei pochi che passavano al nemico; ma due anni trascorsi sotto il segno della poesia e dell’amore.
Ridotto quasi a uno scheletro, mentre andavano prendendo corpo soluzioni finali da parte dei tedeschi ormai alla disperazione, fu sino all’ultimo sostenuto dalle due più generose ossessioni dell’uomo: la poesia e l’amore, appunto. Poesie che compaiono nel diario ma anche sei canti in terzine dantesche, in cui un Dante stranito torna a visitare i nuovi dannati a Sandbostel, nella “città di legno”. E un amore soprattutto: un amore lontano, come in ogni storia di guerra, che attraversa tutte le pagine del diario, che accompagnava tutte le sue giornate. Alla ragazzina che aveva lasciato ad Agrinion aveva fatto la promessa che sarebbe tornato, e lei contro l’evidenza di un distacco brutale che pareva per sempre, contro il silenzio durato mesi e mesi, nonostante l’impossibilità di ricorrere agli uffici della Croce Rossa, come accadeva per tutti gli altri prigionieri di guerra, malgrado i tentativi della famiglia di farle scordare un amore impossibile aveva continuato a scrivere lettere e a spedire pacchi, pochissimi dei quali giunti a destinazione, ma quei pochissimi, forse, come raccontato nel diario, in grado di salvargli la vita.
Si sarebbero poi sposati, cinque anni dopo essersi visti per l’ultima volta, lei ormai una donna, lui un magistrato reputato e stimato per l’equilibrio, reduce dall’importante processo a Graziani, quello stesso gerarca che da ministro della guerra della RSI aveva pervicacemente ignorato le sofferenze di tanti compatrioti. Erano, quelli, mio padre e mia madre. Accompagnavano il diario molti documenti, che mio padre riteneva importanti per offrire riscontri oggettivi a quanto raccontato, quasi temesse l’incredulità di chi non aveva vissuto quelle brutalità e quell’accanimento: disegni di compagni di prigionia, foto, documenti ufficiali dell’amministrazione dei campi. Molto si è perso e il suo rimpianto maggiore era per i disegni di Guareschi, che aveva conosciuto durante la permanenza a Sandbostel. Tra le cose rimaste c’è la foto che gli ordinati tedeschi facevano ad ogni prigioniero, con il numero ben in evidenza: come quella che illustra il Diario clandestino di Guareschi, quella del capitano Saraceni (ma promosso maggiore a sua insaputa) ritrae un italiano pacifico ma molto, molto deciso a resistere con ogni mezzo.

POSTFAZIONE

Queste considerazioni nascono a margine di un saggio con cui Maurizio Portaluri, già Direttore Generale dell'ASL BAT di Andria, in Puglia, partecipa al dibattito in corso sullo stato della sanità pubblica in Italia, sul filo della propria esperienza di gestore, di medico e di cittadino.

POSTFAZIONE

UNA PREMESSA

Quando accettai l’offerta dell’incarico di direttore amministrativo di una ASL in Puglia mi trovavo a Bologna, dirigente di quella ASL, e al termine di una carriera che mi aveva visto ricoprire quasi tutti i ruoli che nella sanità pubblica sono disponibili per un non-medico: dal quello di provveditore-economo (allora si chiamavano così) in un grande ospedale romagnolo, prima ancora della riforma sanitaria del 1978, a quello di responsabile di uno dei primi centri elaborazione dati; da quello di coordinatore amministrativo in una USL del bolognese (nel frattempo erano nate le USL) a quello di amministratore straordinario in Liguria; e ancora direttore amministrativo a Rimini (ed erano appena nate le ASL) e poi direttore generale di nuovo in Liguria e infine direttore di distretto in Emilia.
Una carriera che aveva attraversato tutti i cambiamenti e i rivolgimenti istituzionali della sanità pubblica in Italia, a partire dalla riforma sanitaria che, non dimentichiamolo, arrivò dopo oltre un decennio di appassionato dibattito e rappresentò la prima grande legge di trasformazione e modernizzazione dello Stato.
Al posto di una pletora di enti e organismi scollegati tra loro –ospedali, consultori, manicomi, mutue, dispensari- disseminati senza logica sul territorio nascevano le USL, con una missione generale e universalistica: trattare i problemi di salute di una intera popolazione in maniera coordinata per offrire a tutti servizi uguali per tutti.
Fu una rivoluzione, di cui oggi è difficile cogliere il senso: razionalità e democrazia, prevenzione e servizi territoriali, eliminazione degli sprechi: tutto contribuiva a fare di quella legge, scritta bene e organica, una risorsa decisiva per il sistema paese e per il miglioramento delle condizioni di salute degli italiani.
Dopo la poesia venne la prosa: l’applicazione della legge fu più difficile del previsto, la costruzione delle USL, e la loro concreta organizzazione, in particolare si scontrarono con la mancanza di una diffusa cultura dell’innovazione e di strumenti di gestione aggiornati: il cambiamento si fece più faticoso, ma andò avanti. Due “riforme della riforma” modificarono diversi punti dell’impianto originario, scomparirono i comitati di gestione e il loro presidente e arrivarono i direttori generali, più volte cambiarono gli ambiti territoriali. Ora le USL sono diventate ASL, e il territorio, molto più grande, corrisponde quasi sempre a quello della provincia. In quasi trent’anni molto è mutato ma rimane sottotraccia l’impianto universalistico della legge del 1978, che ci è invidiata da molti paesi e che fa del nostro sistema sanitario pubblico, tutto sommato, un buon sistema.
Ma perché “tutto sommato”? Perché si poteva fare di più, si poteva fare meglio, forse si poteva fare prima. Proverò dopo a indagare alcune delle cause di queste che chiamerei insufficienze e non fallimenti, ma esse sono diventate per me e per tanti come me ragioni di insoddisfazione professionale.
Ed ecco perché – e torniamo all’inizio- tanti diversi incarichi, alcuni prestigiosi, tutti svolti nell’arco di un periodo importante di cambiamento ( non solo della sanità, ma della pubblica amministrazione) non avevano esaurito la voglia di provare ancora a misurarsi con un problema semplice in apparenza: come garantire equità, qualità e sostenibilità economica a un sistema che oggi, proprio per le sue debolezze, rischia una crisi di consenso.
Dunque il richiamo della Puglia. Perché la Puglia ha potuto ridestare –non solo in me ma in tanti altri al Nord- il gusto di una sfida per cui abbandonare sistemazioni comode, affrontare disagi, logistici, di famiglia, di rapporti consolidati da lasciarsi dietro le spalle?
E’ difficile forse capire l’attrattiva che il “laboratorio Puglia” ha esercitato su chi per mestiere fa il dirigente o l’amministratore nelle strutture sanitarie del Nord, se non si tiene ben presente l’impressione che fece l’avvento della Giunta Vendola quasi tre anni fa: un cambiamento imprevisto ma sostenuto da un vasto consenso popolare che si era formato proprio –ed era forse la prima volta in Italia- su temi che ci riguardavano da vicino: il destino del servizio sanitario regionale, il ruolo degli ospedali, il finanziamento del sistema, il desiderio di un rilancio e della modernizzazione delle strutture, il recupero delle professionalità degli operatori.
L’analisi che fa Maurizio Portaluri della sua esperienza, e le valutazioni critiche (ma mai disfattiste ed anzi venate di un ottimismo tenace) sulle contraddizioni del sistema sanitario, nazionale prima che pugliese, mi pare di condividerle totalmente, ma vorrei aggiungere alcune considerazioni appunto partendo da quell’entusiasmo che mi ha indotto a condividere un percorso accidentato eppure ricco di possibilità.
Un entusiasmo che poteva provare chi per l’appunto aveva sperimentato i limiti che l’applicazione della riforma aveva incontrato nel corso degli anni, che pure aveva prodotto molti e importanti risultati acquisiti. Soprattutto in Emilia-Romagna tali risultati si erano andati consolidando, e avevano dato vita ad un equilibrio tutto sommato soddisfacente: conti in ordine quasi ovunque, una buona efficienza e una crescente attenzione alla qualità, sia quella percepita che quella sostanziale. Cosa volere di più?
Per un tecnico della gestione (così noi burocrati ci sentivamo da tempo) ciò era molto, anche se non tutto. Ad una analisi meno centrata sull’efficienza dei processi e sull’equilibrio dei conti certo risaltavano punti deboli, alcuni preoccupanti.
Provo a riassumerli rimandando a quanto detto da Maurizio Portaluri. Innanzitutto l’inappropriatezza, cioè le prestazioni (di diagnostica, di ricovero etc.) inutili (e in alcuni casi proprio perché inutili anche pericolose), e di conseguenza i tempi di attesa dilatati, a cui si cercava di rimediare aumentando l’offerta e alimentando un ciclo vizioso che rischia di emarginare i più deboli.
Ma molte erano le cose buone fatte: soprattutto la visione d’insieme, di sistema, che risultava acquisita e scontata: distribuire in modo razionale sul territorio le risorse (gli ospedali, i consultori, gli ambulatori, ma anche le persone), programmare e prevedere gli effetti anche a medio e lungo termine delle scelte e delle decisioni. E poi il buon equilibrio raggiunto tra ospedali e territorio. Vengo da una esperienza, tutta vissuta nel corso di un decennio –gli anni novanta del secolo appena passato- in cui nel territorio di pianura tra Bologna e Ferrara ben 6 piccoli ospedali erano stati chiusi e riconvertiti: all’inizio tra le proteste della gente, poi con grande soddisfazione di tutti. Ospedali trasformati in residenze protette, in poliambulatori, in day-hospital, in punti in cui collocare i medici di famiglia, in cui posizionare le strutture di contatto con gli utenti (informazioni, prenotazioni, pagamenti).
E dunque pensavo, di fronte alle prospettive che si aprivano in Puglia, di poter dare un contributo mettendo a frutto il buono e il cattivo, le esperienze di successo e quelle non riuscite o non pienamente soddisfacenti.
In più circostanze speciali parevano offrire, nel mio caso, altri elementi di interesse. Venivo infatti chiamato in una ASL in costruzione, anzi che sarebbe nata dopo pochi mesi. La provincializzazione delle ASL, partita sia pure in ritardo anche in Puglia, imponeva che alla nuova Provincia, non ancora costituita ma anch’essa in formazione, corrispondesse una nuova organizzazione sanitaria. Si trattava di crearne una prendendo i “pezzi” da tre preesistenti ASL, e il tempo a disposizione per preparare l’evento era pochissimo: poco più di due mesi.
Era una sfida entusiasmante per chi già tre volte aveva lavorato ad accorpamenti e trasformazioni, e il cui ultimo incarico, anche se non come manager, era stato quello di lavorare alla nascita dell’ASL provinciale di Bologna, per costituire la quale non erano bastati 4 anni di lavoro. Lasciavo Bologna con gli stipendi ancora elaborati da tre diversi sistemi informativi, quante erano le precedenti ASL, nonostante un imponente sforzo di programmazione. Dunque arrivavo in Puglia con la convinzione che si potesse far meglio e più in fretta, prendendo lo spunto da quelli che io consideravo errori commessi al Nord e sfruttando quelle attitudini e inclinazioni, tante volte giudicate con sospetto se non criticate apertamente, che a torto o a ragione si ritiene caratterizzino l’impegno di chi lavora nel pubblico al Sud.
Ma queste erano le motivazioni soggettive, quello che mi attirava e sospingeva. Quali erano le condizioni oggettive, lo stato della situazione in sanità in Puglia? E soprattutto: è riuscito quell’innesto tra esperienze e culture organizzative?

LA PUGLIA VISTA DAL NORD

Un esame veloce dei documenti disponibili permette anche da lontano di farsi una prima idea della situazione: una prima idea per niente in linea con la visione pregiudiziale di un mezzogiorno indifferenziato, genericamente “arretrato”. Una rete ospedaliera a maglie strette, ospedali in molti casi recenti o addirittura recentissimi, una dotazione di cosiddette grandi apparecchiature (TAC, PET etc.) da far invidia talvolta a quella di regioni del Nord “ricco”, soprattutto la presenza di professionisti aggiornati e motivati, espressi da un sistema di formazione e ricerca forte e radicato. Insomma a prima vista il quadro di una regione ricca, con una offerta di servizi sanitari sicuramente squilibrata (troppi ospedali e poche strutture territoriali e poca prevenzione), ma ben dimensionata, con comunità locali attive e sensibili ai problemi di organizzazione sanitaria. La conoscenza diretta conferma l’impressione positiva, ma permette anche di cogliere alcuni aspetti particolarmente negativi, quelli cioè in cui le criticità e i limiti del quadro normativo ed organizzativo nazionale interagiscono con difficoltà o ritardi locali, creando sinergie viziose.
Ne costituisce un esempio emblematico, di cui parlerò tra poco,il ruolo della politica o il problema della libera professione dei medici, su cui non a caso Maurizio Portaluri si sofferma a lungo.
Ma infine: una parte grande e importante del paese, una regione poco più piccola ma più popolosa di una “nazione” come l’Albania, che si affaccia sul mare e che appare nel suo complesso moderna, sviluppata e dotata di infrastrutture (la rete stradale, che gioca un ruolo decisivo nell’articolazione dei servizi sanitari, ma anche quella digitale) e servizi, con una popolazione laboriosa e tenace, legatissima alla propria identità e alle proprie radici.
Dunque un terreno favorevole, in cui opportunità, risorse e carenze disegnano i contorni di un cammino possibile verso la modernizzazione e il miglioramento dei servizi sanitari.
Fu proprio così: scoprii con stupore che la ASL che si doveva costruire godeva almeno sulla carta di numeri di tutto rispetto, e che gli operatori su cui contare apparivano non solo motivati al cambiamento ma anche in possesso di strumenti tecnici e culturali di notevole rilievo.
Cambiamento: era la parola magica che animava le discussioni e gli incontri, la parola che rafforzava e orientava l’impegno di molti, soprattutto la parola su cui si era giocato l’esito dello scontro elettorale, e che si era andata caricando di attese messianiche, di voglie di rivincita.
L’impatto fu comunque assai positivo, e la mole di lavoro tale da costringermi – e come a me questo capitò forse anche ad altri- a concentrare gli sforzi sulle attività a “maggior valore aggiunto”: quelle cioè che presentavano le migliori chances di riuscita immediata. Il cambiamento delle direzioni fu innanzitutto, in tutta la regione, un cambiamento di stili di lavoro, di approccio agli operatori, di confronto con i poteri locali. Maggiore apertura all’esterno, maggiore trasparenza, contestabilità delle decisioni, disponibilità alla discussione, ripresa del confronto sindacale: tutti elementi che marcavano in senso positivo il nuovo corso, che ridavano voce ai dipendenti e ai cittadini.
Nel mio caso, poi, il grande problema della nascita di una nuova organizzazione, che metteva insieme e integrava elementi diversi, con storie prassi e regole differenti, sovrastava tutti gli altri. La costruzione della BAT, da questo punto di vista, rappresenta un caso esemplare, una storia di successo. Una dura esperienza personale (un eccesso di spirito regolatore e programmatore, una sottovalutazione dei problemi pratici, il desiderio di perfezionismo, che al nord hanno reso ingestibili operazioni del genere) si è potuta misurare con lo spirito di adattamento la fantasia e l’inventiva degli operatori: ne è scaturita attraverso rapidi aggiustamenti successivi una organizzazione nuova, che nel giro di poco più di un anno si è dotata di tutti gli strumenti necessari per operare (l’atto aziendale –una specie di statuto-, il nuovo organigramma, la nuova pianta organica, i nuovi regolamenti, l’immediata acquisizione delle professionalità riconosciute indispensabili), è riuscita ad allineare i sistemi informativi e ad avviare i processi di ricollocazione del personale. Il tutto mentre il Sole24ore celebrava per l’ASL di Bologna la riuscita della fusione su scala provinciale delle ASL preesistenti a distanza di (soli!) quattro anni dall’inizio del cammino.
La soddisfazione dell’obiettivo raggiunto in così poco tempo era poi ulteriormente aumentata dai processi di modernizzazione avviati nel rispetto delle indicazioni del cosiddetto codice della amministrazione digitale, che ci ha visto all’avanguardia in settori tante volte altrove trascurati. Insomma un bel risultato, il cui raggiungimento però lasciava pian piano trasparire l’esistenza di difficoltà sottostanti, meno facili da trattare.
Ed ecco prendere campo i problemi cui accennavo prima, quelli comuni a tutto il paese, ma singolarmente rilevanti in Puglia.

IL PECCATO ORIGINALE: IL RUOLO DELLA POLITICA

Maurizio Portaluri ne ha parlato. L’intromissione della politica nella gestione della sanità è una costante che indebolisce e rende poco credibile il sistema sanitario nazionale nel suo complesso. Il meccanismo di scelta dei Direttori Generali è tale da rendere quasi irresistibile la tentazione di usarli come cinghia di trasmissione dei desideri degli apparati politici regionali: si va dalla promozione di logiche di campanile, nel migliore dei casi, alla brutale imposizione di scelte spartitorie nel peggiore. La breve durata dell’incarico, la possibilità di revoca praticamente senza limiti (ancorata magari a criteri di severa oggettività di cui si sa per certo che non sarà possibile il rispetto- quale il draconiano obbligo dell’equilibrio di bilancio, che consegna i Direttori nelle mani della Giunta), la mancanza di un percorso di formazione che garantisca competenza tecnica “certificata” e capacità di relazione: tutto congiura a fare dei vertici aziendali dei referenti ben disposti nei confronti del potere politico.
In Puglia si è cercato almeno all’inizio di dare dei segnali in controtendenza: si sono chiamati in alcuni casi manager dall’esterno, da regioni considerate all’avanguardia nella gestione, sfruttando anche quell’effetto di attrattiva di cui parlavo all’inizio. Si è data importanza alla trasparenza e al confronto e al rispetto delle regole. Ma con particolarità che sin dal principio dovevano dare il segno di un processo sottostante che andava in tutt’altra direzione e destinato a riprendere man mano vigore.
Ne rappresenta l’esempio più forte il modo con cui sono stati scelti i direttori sanitario e amministrativo. La legge dice che li sceglie in totale autonomia il Direttore Generale: si tratta di una scelta che rappresenta la più gelosa prerogativa del Direttore, il modo principale a sua disposizione per contrastare e riequilibrare i prevedibili tentativi di condizionamento o in certi casi le resistenze dell’apparato. Sono scontati i suggerimenti, le raccomandazioni, i tentativi di influire sulla scelta, che rimane però, non solo formalmente, di esclusiva competenza del Direttore, che punta le sue speranze di successo su persone di sua assoluta fiducia, che ha avuto modo di conoscere o con cui ha addirittura già lavorato.
La designazione dei nomi è stata invece effettuata, in Puglia, direttamente dai partiti, secondo una logica di “contrappesi”: al Direttore Generale “in quota” ad un partito si affiancano figure “in quota” ad altri partiti. Quando dico “in quota” mi riferisco a figure di professionisti stimati, che non fanno ( o non fanno più) politica, ma che a torto o ragione (normalmente a ragione) sono considerati “vicini” ad un’area piuttosto che ad un’altra. Il risultato di questo meccanismo, che ha una sua logica, è stato lo screditamento del sistema nel suo complesso: da una parte la politica, che si intendeva rimuovere dalla gestione operativa, ritornava in grande stile, oltretutto per imposizione esterna, deprimendo ancor di più la già scarsa autonomia delle aziende sanitarie; dall’altra in qualche modo si confermava l’idea (per fortuna non sempre rispondente al vero, ma dotata di una forte carica di suggestione) che per “fare carriera” occorreva avere in tasca la tessera giusta, il che ha ridato fiato ad un altro vizio tutto italiano ma particolarmente praticato in Puglia: il trasformismo. La disponibilità a cambiare appartenenza e affiliazione è un’arma di difesa e di attacco la cui padronanza, al limite del virtuosismo, rappresenta uno degli intralci più seri per la modernizzazione e la responsabilizzazione del sistema sanitario regionale.
Nei giorni del grande mutamento, quando improvvisamente sono cambiati riferimenti politici consolidati e nuovi valori si sono fatti avanti sulla scena, i programmi di vera e propria “epurazione” che molti irresponsabilmente andavano figurandosi si sono scontrati con posizionamenti improvvisamente cambiati, con spostamenti di 180 gradi effettuati , da un giorno all’altro, con disinvoltura e serenità assolute, generando una confusione che per chi veniva da fuori assumeva toni francamente comici.
Dunque l’intromettenza della politica assume in Puglia forme peculiari, modi sicuramente più invasivi che nel resto del paese. Ma non basta. Intromettenza della politica significa anche, soprattutto per la classe medica, un continuo passaggio da un ruolo all’altro, spesso per incarichi istituzionali di assoluto rilievo. Non si contano i primari sindaci, che tornano a fare i medici, poi i sindaci, o che addirittura fanno le due cose insieme, mescolando il ruolo di controllore con quello di controllato, influendo da due lati diversi ma convergenti sull’opinione pubblica nella stessa città.
Si tratta di peculiarità che molte e diverse cause contribuiscono a determinare, ma che, sostanzialmente, possono riassumersi con la parola “notabilato”. Gruppi di interesse più affini alle consorterie e ai clan familiari che ai moderni gruppi di pressione o alle stesse organizzazioni partitiche, capaci di utilizzare l’associazionismo, i partiti, le istituzioni come puri strumenti, senza davvero identificarsi con nessuno di essi. Localismo esasperato, cooptazione, meccanismi identitari sono i contrassegni del notabilato, che operano anche in sanità, legando in particolare i medici il più possibile alla città di origine, e ove possibile addirittura (andando contro ogni buona prassi) scegliendo sul posto ed estraendoli dall’apparato i manager (in particolare i direttori sanitari e amministrativi).
E’ chiaro che in un contesto del genere diventa più difficile far passare i valori di una moderna azienda di servizi alla persona, far capire che la dimensione di riferimento non è più la singola città e il suo ospedale ma la provincia e una rete complessa e integrata di presidi, tra cui risaltano gli ospedali per ragioni storiche ma non eterne.

ALCUNI NODI

Ma i nodi principali, quelli che incidono davvero, in maniera strutturale, sull’assistenza sono altri, non così peculiarmente declinati. Se insomma la politica gioca un ruolo particolare in Puglia, non così si può dire della questione della cosiddetta umanizzazione, del ruolo dei Medici di Medicina Generale, della spinosa questione della libera professione dei medici dipendenti. Si tratta di problemi nazionali, alla cui soluzione sono impegnati direttori generali, studiosi, amministratori in tutta Italia, senza significative differenze.
Come nota Portaluri, parlare di umanizzazione in sanità rappresenta in realtà il riconoscimento preventivo di un insuccesso. La gentilezza, la disponibilità, la professionalità nella relazione; il decoro e la pulizia dei locali, il rispetto della dignità e della riservatezza; non rappresentano tutte queste cose la “forma” essenziale del servizio, il modo in cui deve inevitabilmente estrinsecarsi? Non è scontato? No, evidentemente, ed è appunto questa scissione tra forma e contenuto, in cui il contenuto ha sempre più assunto un aspetto tecnico e tecnologico, astratto, e spesso al limite del virtuale, è proprio questa scissione ad aver reso “disumana” la medicina.
Si ritiene che larga parte dell’umanizzazione da riconquistare risieda nel cosiddetto comfort, in quello alberghiero soprattutto, che è fatto, a dire il vero, anche di qualità della relazione (accoglienza, informazione, assistenza etc.). Il manuale sul comfort alberghiero messo a punto dall’Agenzia Sanitaria dell’Emilia Romagna si sofferma su questi aspetti: il grande albergo resta un punto di riferimento, per la disponibilità di spazio, per l’estetica, per la qualità dei servizi di supporto (pasti, servizi a pagamento, negozi etc.), per la possibilità di comunicare, etc. Farsi trattare come un cliente di riguardo pare un obiettivo auspicabile e desiderabile.
Ma il problema non è questo. Gli ospedali non devono assomigliare a degli alberghi: per questo ci sono già le case di cura. Gli ospedali – e soprattutto quelli pubblici- devono garantire, in modo austero e non accattivante, quelle condizioni di base di pulizia, appropriatezza dei locali, gentilezza, silenzio, rispetto, che sino alla prima metà del novecento, quando eravamo molto più poveri, le nostre strutture sapevano automaticamente garantire, senza doversi inventare programmi di umanizzazione e di miglioramento del comfort.
E la Puglia come si colloca? Sul crinale tra vecchio e nuovo le sue strutture sanitarie forse non sanno essere né l’una né l’altra cosa: né moderni asettici e mediatizzati (senza schermi televisivi appesi alle pareti oggi non sembra darsi comfort) centri di salute, ma neppure antiquati e “poveri” (poveri di stimoli, poveri di ciarpame tecnologico, poveri di abbellimenti non funzionali) strumenti di cura. Non voglio fare l’elogio delle corsie e delle suore, ma forse occorre far tesoro di quelle che possono sembrare condizioni di arretratezza, evitando di imporre ad ogni costo modelli organizzativi, di relazione, di servizi di contorno che sono estranei alla mentalità e alla cultura degli operatori e alla missione stessa delle strutture.
Dunque dare valore al modo non proceduralizzato e apparentemente poco professionale con cui in molti ospedali si instaura il rapporto con il cittadino, “rinegoziare” in qualche modo le talvolta assurde prescrizioni sulla privacy rivalutare le “vecchie” strutture quantomeno per le funzioni meno specialistiche e a minore impatto tecnologico. Ripristinare, magari con altri termini, la vecchia distinzione tra ospedali di base, provinciali e regionali permetterebbe in Puglia di valorizzare molti piccoli ospedali, uscendo dalla falsa alternativa tra chiusura e ristrutturazioni pesanti per cui non ci sono le risorse, ma soprattutto relegando il mito dell’”eccellenza”, in nome del quale si distorce la programmazione sanitaria in funzione più dei medici che dei bisogni della popolazione, nel cassetto dei vecchi arnesi.
Caratteristiche ambientali e culturali, il diverso ruolo della famiglia, i vincoli di solidarietà e la profonda umanità dei pugliesi: tutto ciò potrebbe servire ad innescare un processo di ripensamento di cosa significa assistenza sanitaria pubblica, proprio a partire dal Sud, certo incrociando con le buone esperienze e i risultati acquisiti in altre regioni (e basta pensare alla prevenzione, pressoché sconosciuta in Puglia quantomeno nella sua versione “di massa”).

TRE DOMANDE

Maurizio Portaluri mi rivolge però tre domande puntuali e molto difficili: tre domande cui tentare di dare una risposta mettendo a frutto una esperienza tutta giocata altrove, in un Nord spesso idealizzato ma certo diverso.
Perché, innanzitutto, non si riescono a fare le cose che si fanno al Nord. Credo che una parte della risposta stia nelle considerazioni fatte a proposito del ruolo della politica, in quell’opera di intromissione che si traduce poi, assai spesso, in un meccanismo di interdizioni incrociate. Ma si tratta certamente solo di una spiegazione parziale. Altri motivi vanno ricercati nella configurazione stessa degli apparati pubblici, nel modo in cui è strutturata la burocrazia, che ha interpretato storicamente, qui più che altrove, un ruolo di gestore di flussi di spesa derivati. La finalità principale di questa burocrazia è stata, per essere più chiari, quella di intercettare risorse finanziarie trasferite al Sud, attraverso strumenti come la Cassa del Mezzogiorno, che non hanno responsabilizzato le classi dirigenti locali, sempre alle prese con una negoziazione continua, fatta di richieste assillanti rivolte ad uno Stato considerato lontano. Anziché sviluppare capacità imprenditoriali e progettuali sul posto per molti anni ci si è limitati ad un ruolo passivo di postulanti che ha prodotto quell’effetto di dispersione e di utilizzo irrazionale delle risorse che sta alla base delle tante cattedrali nel deserto, delle strade che non portano da nessuna parte e non servono a nessuno, degli ospedali inutili, ancorché completati. Qualunque idea andava bene, pur di giustificare magari ex post le somme messe a disposizione.
La situazione oggi è cambiata, soprattutto in Puglia, ma la scarsa propensione a gestire tutto insieme il processo, a sorvegliarne le diverse fasi sino alla conclusione dell’opera o del progetto è in qualche modo rimasta. La convinzione che i finanziamenti disponibili producano comunque occupazione, al di là della loro finalizzazione, rende ancora oggi difficile ottenere risultati paragonabili a quelli conseguiti in altre zone del Paese. In sanità troppo spesso buone intenzioni e buoni progetti si arenano non appena effettuate le assunzioni che costituiscono la condizione per realizzare il progetto, che rimane non raggiunto.
Se si considera poi che questa “tara” originaria investe apparati ancora largamente imbevuti di una cultura giuridico-formalistica, che procede per atti e sulla base di una logica degli adempimenti e delle competenze, si comprende facilmente quanto difficile sia il cambiamento. Senza scomodare aspetti più propriamente antropologici è la storia degli ultimi secoli che fa di quello che ancora Croce chiamava “il Regno” una cosa a parte rispetto al resto dell’Italia.
Più difficile la seconda domanda: perché i manager venuti dal Nord sono stati messi, non sempre è vero, ma spesso, nella condizione di andarsene.
In questo caso si potrebbe pensare che la risposta stia semplicemente nel modo con cui la politica si relaziona con gli apparati locali, soprattutto in sanità. Eppure è stata la stessa politica a farli venire, a sceglierli e a insediarli in posizioni di rilievo. Credo che in questo caso giochino un ruolo importante proprio i processi di rinnovamento che sono comunque all’opera, che attraversano gli schieramenti, e che talvolta affiorano alla superficie per poi di nuovo tornare a lavorare sotto traccia. Una classe politica che faticosamente e tra contraddizioni e ripensamenti va modificandosi ha giocato una carta in una partita complessa in cui l’esito non è scontato. Ritengo insomma un fatto positivo che il tentativo sia stato fatto, e l’indubbio arretramento verificatosi lo imputo a difficoltà forse sottovalutate all’inizio ma non necessariamente destinate a prevalere: difficoltà finanziarie innanzitutto, legate al ritardo con cui è stata messa mano alla riorganizzazione del sistema sanitario regionale e alle troppe promesse fatte, ma anche difficoltà dovute alla povertà degli apparati (a cominciare da quello dell’Assessorato e dell’Agenzia sanitaria), al loro assetto tradizionale, alla loro incapacità di svolgere quelle funzioni di supporto e di propulsione che il ripensamento del sistema sanitario regionale richiede. I direttori venuti dal Nord hanno spesso forzato la situazione nel tentativo di venire a capo di un problema che richiede anni per la sua soluzione, inserendo professionalità nuove, non metabolizzate dalle tecnostrutture, non di rado viste come estranee e interferenti con la consueta e rassicurante routine, ricorrendo a specialisti o a consulenti che hanno destato allarme e risentimenti.
E’ l’orizzonte temporale di riferimento che non permette quel procedere lento ma sicuro che sarebbe necessario. I tre anni a disposizione, come ho già detto, sono a stento sufficienti per un moderato restyling, e resta del tutto irrealistico l’obiettivo, ad esempio, di razionalizzare l’offerta qualificando gli ospedali meglio attrezzati e posizionati, costruendo sul territorio una rete credibile e funzionante di strutture di primo livello.
Lo stesso quadro di riferimento programmatorio è confuso, e basti pensare al fatto che lo strumento fondamentale, il piano sanitario regionale, a distanza di quasi tre anni dall’insediamento della nuova giunta non è ancora pronto.
In queste condizioni è difficile pensare che gli “uomini del Nord” possano fare meglio dei tanti professionisti locali ben disposti al cambiamento.
La terza domanda è oltre che difficile insidiosa: mi si chiede che cosa, secondo me, bisogna cambiare, e l’insidia è in quel “secondo me”, che rischia di dare spazio eccessivo a quel soggettivismo riformatore in cui noi italiani siamo maestri.
Se stiamo ai fatti e ad una valutazione spassionata della situazione credo che un credibile e pragmatico percorso di cambiamento debba partire dalla “testa”: potenziare e organizzare i servizi dell’Assessorato e della Agenzia Sanitaria è un passo indispensabile, che condiziona tutto il resto. Il più importante centro di spesa della regione, quello cui fanno capo decine di migliaia di operatori della sanità è oggi sostanzialmente impotente e riesce ad assolvere solo un ruolo burocratico e autorizzatorio, cioè precisamente quello che non serve per innescare e favorire il cambiamento. Anche modificare l’assetto di vertice con figure di livello professionale riconosciuto e soprattutto non coinvolte nella passata gestione appare decisivo. Il grave ritardo nell’approntare gli strumenti di programmazione necessari e l’insistitente predisposizione di minuziosi regolamenti di dettaglio, che eliminano nei fatti, nella gestione anche quotidiana, ogni autonomia gestionale, sono le due facce dello stesso problema: l’insorgere di un neocentralinismo “straccione”, cioè arruffone e incapace oltretutto di svolgere seriamente il proprio compito.
Ma non basta: occorre anche dare più autonomia alle Aziende e assicurare loro stabilità di direzione, garantendo almeno per cinque anni gli incarichi di vertice, e allineando ad essi tutti gli altri.
Ma soprattutto occorre tagliare alla base la malapianta della ricerca del consenso tramite forme più o meno mascherate di assistenzialismo e della deresponsabilizzazione dei dirigenti attraverso l’abolizione pura e semplice della pianta organica: strumento perverso che impedisce di utilizzare le risorse in modo efficiente, prevedendo cervellotiche “dotazioni” di personale scardinate da ogni corrispondenza con i volumi di attività, e al tempo stesso costituisce un alibi insuperabile per giustificare inerzie incapacità ritardi.
Dunque poche cose ma semplici e fattibili con strumenti amministrativi e al massimo una legge regionale: riorganizzazione dell’Assessorato e dell’Agenzia, qualificazione e potenziamento degli addetti, incarichi quinquennali per i direttori e allineamento di quelli dei loro collaboratori principali (primari, direttori di dipartimento, capiservizio), eliminazione della pianta organica e libertà di assumere secondo necessità nel rispetto del budget. Già questo costituirebbe una piccola rivoluzione capace di dar vita a fenomeni emulativi e virtuosi. Altre cose da fare sono invece più complicate e richiedono un deciso e coraggioso ripensamento a livello nazionale. Mi riferisco innanzitutto alla libera professione dei medici del servizio sanitario nazionale. Mi associo semplicemente alle cose che dice Maurizio Portaluri: la possibilità di effettuare libera professione va eliminata.
In tutte le sue forme, anche in quelle mascherate pudicamente nei contratti nazionali, quindi non solo la libera professione vera e propria e quella cosiddetta “intra-moenia” (il latinorum serve ancora, direbbe Manzoni), quella cioè esercitabile dentro le strutture pubbliche, ma anche le cosiddette “prestazioni aggiuntive” e i “turni aggiuntivi”, che cosnsistono nell’”acquisto” a tariffe sindacali di ore o prestazioni in più e oltre il normale orario di servizio.
Prestazioni e turni aggiuntivi furono introdotti per abbattere le liste d’attesa e hanno avuto l’effetto esattamente opposto: quello di allungarle o comunque lasciarle inalterate.
L’interessata riduzione dell’attività durante l’orario “istituzionale” ha difatti come conseguenza (in Puglia quasi automatica) quella di rendere necessario quel sovrappiù di attività che pemette di integrare in modo significativo lo stipendio. Stiamo parlando di cifre consistenti. Per l’ASL in cui lavoro si prevede per il 2007 di sfiorare i nove milioni di euro.
Non credo ci sia molto da aggiungere sulla libera professione: è un tema tante volte affrontato e altrettante rigettato quando emerge la proposta dell’esclusività assoluta dei medici. Ragioni deontologiche, etiche ma anche banalmente imprenditoriali (se davvero le ASL fossero anche delle imprese) esigono la soppressione di un privilegio che non ha motivo di esistere e che condiziona in negativo il servizio pubblico.
Un altro tabù è rappresentato dal rapporto con il servizio sanitario nazionale dei medici di famiglia. Una volta chiamati medici di base ora medici di medicina generale: sono cambiati i nomi, e anche le modalità dei loro compensi, ma non la sostanza. Si tratta di medici che hanno retribuzioni certe e garantite, compiti affidatigli dallo stato, ruoli formali nel servizio sanitario e dunque in possesso di tutti quei requisiti che danno vita ad un rapporto di dipendenza: ma restano liberi professionisti. O meglio, utilizzano il meglio dei due mondi, la stabilità economica e di sede della dipendenza e la libertà e l’autonomia della professione. Il risultato è che ogni tentativo di intervenire sulle modalità prescrittive, sugli obblighi informativi, sulle modalità di erogazione del servizio si scontrano con il loro status di medici non dipendenti. E’ arrivato il momento –ed è questa l’altra grande riforma da realizzare per rivatilizzare il SSN- di inserirli nel sistema a pieno titolo, come professionisti dipendenti e dunque con l’obbligo di rispondere al loro datore di lavoro uniformandosi – con tutte le cautele e le peculiarità del ruolo specifico- alle regole alle direttive e alle strategie come tutti gli altri.
Che altro? Poco, parlando di cose fattibili senza rivoluzionare il sistema. Forse aiuterebbe (ma l’ingegneria istituzionale, in cui siamo maestri, maschera spesso una tenace volontà di lasciare comunque tutto come sta) ridisegnare il sistema delle relazioni con i poteri locali: dare più peso ai Sindaci, coinvolgerli nella gestione – e dunque anche nell’obiettivo di far quadrare i conti- servirebbe senz’altro ad evitare le fughe in avanti e la difesa di posizioni di retroguardia che oggi sono consentite dal loro ruolo di “indirizzo” nella Conferenza dei Sindaci. Ricordo in Liguria un sindaco che difendeva a spada tratta il mantenimento in esercizio del “suo” ospedale di venti posti letto, i cui costi andavano affondando l’intera ASL, beatamente ignaro di ogni considerazione anche di sicurezza dei pazienti.
Ripristinare un vero e proprio “consiglio di amministrazione” potrebbe aiutare i direttori generali nella difesa della loro tanto minacciata autonomia gestionale.
Alcune messe a punto tecniche nei meccanismi che regolano i concorsi per gli amministrativi potrebbero poi dare risultati assai importanti, anche se non facilmente valutabili dai non addetti ai lavori.
Oggi se ho bisogno di un responsabile del bilancio penso ad un professionista esperto di analisi finanziaria, di programmazione, di sofisticate procedure informatiche, di fisco: ebbene, per selezionarlo devo fare un concorso in cui si chiede la conoscenza del diritto amministrativo, di quello costituzionale, di quello sanitario.
Per cercare un responsabile delle risorse umane, idem. Per cercare un dirigente della comunicazione e marketing, idem. Gli esempi si possono moltiplicare, ma in sostanza non posso definire le materie e gli argomenti su cui testare davvero capacità e conoscenze dei candidati. E questo spiega perché, con grande scandalo del pubblico male informato, si cerca di ricorrere ogni volta che si può ai consulenti, agli incarichi atipici etc.
Poter tornare a reclutare le persone competenti in modo trasparente e aperto a tutti: basterebbe questo per far cambiare fisionomia al nostro sistema nel giro di 5 anni.

IN FORMA DI CONCLUSIONE

Le tre domande di Maurizio Portaluri restano forse senza risposte davvero soddisfacenti. Ma credo che questo dipenda dalla complessità e dall’intrico delle questioni, e dal fatto che tutte rimandano ad altro, ai grandi temi del rinnovamento della società italiana, della politica, delle regole generali della convivenza.
Lavorare oggi nella sanità pubblica significa collocarsi, in maniera più esposta che altrove, sulla linea di contatto e di scontro tra logiche degli apparati e logica del servizio. Gestire meglio questo ruolo potrebbe aiutare a dare un contributo alla riforma della pubblica amministrazione, che è iniziata, lo ricordavo all’inizio, proprio con la legge di riforma sanitaria. Prenderei sul serio l’invito a partire dalla persona: quella malata e quella che non vuole ammalarsi. La “centralità della persona” è diventato uno slogan, una parola d’ordine, talvolta un semplice claim pubblicitario, cui non corrisponde alcun vissuto.
Recuperarlo, quel vissuto, mettendoci al posto di quelli per cui lavoriamo: ecco quale sarebbe un utile esercizio spirituale, da ripetere ogni giorno.

da La sanità malata. viaggio nella Puglia di Vendola, di Maurizio Portaluri, prefazione di Michele Di schiena, postfazione di Gian Luigi Saraceni, Glocal editrice, Lecce 2008





mercoledì 6 febbraio 2008

Aspettando la terza

Scritte mentre infuriava la guerra in Jugoslavia, queste poesie facevano esercizio di tristi profezie: la terza che aspettavamo era la guerra mondiale in cui siamo oggi immersi, ignari e felici, ma anche quella civile che si approssima inavvertita.



IAspettando la terza
ti ricordo beltà d'Italia
sparita ormai
e dalle facce
dileguata prima
che dalle cose. Esse
in quelle
posture loro
stanno
sconce e deformi eppure
tenacemente ferme
al disperso splendore
che dilagava attorno:
resistono.


IILe cose dunque se
aspettando la terza
si distendessero in paesaggio
a ricordo di come il mondo
era prima
potrebbero insegnarci
le felici distruzioni
la guerra ai manufatti
di questa ordinata e ricca
età trionfale,
e divellere le ben costrutte
opere di noi testimonianza,
la bava immonda che segna
la nostra traccia sulla terra
sarebbe giusto esercizio,
premio fatale.


IIIMa sarà invece
guerra tra uomini
la terza che viene
e quell'orizzonte che increspa
il limite lontano
del visibile
è tumulto di genti popoli
aggruppamenti e torme.


IV
Aspettando la terza enumero
conto i modi d'amare
e le rime ad essi
adatte
penso
ricordo e rido.


V
Aspettando la terza
si muove la guerra
lentamente a quelli
tra noi
che disertori
la tivvù ha proclamato
e smarriti prendono
le armi.


VIEcco qui noi ecco qui noi
ecco qui noi
gridiamo storditi
nella pace oleosa
tra veli e quiete
mentre il meriggio si arrende
allo scuro che viene dal fondo
del golfo.


VIIImbelli aspettiamo
la terza, gonfi di ammaestramenti
inutili -la storia si fa confuso
presagio, il massacro contiguo
il dibattito acceso.
Mi ingombra la pietà
il pensiero
dell'immane ripetizione
il sapore della polvere
che sento già nella bocca
il rombo del cannone la vampa
e la vasta inanità del tutto.


VIIIE la fiamma
attende pure la terza
-aspra combustione
del mondo: è una pira
regale o un soffio
potente quello che
ansima fuori
che ci chiama a vedere?
IXEppure aspettando
la terza preferiamo
sognare la lucente
sinuosa potenza
dei missili, portentosi
cilindri.


X
Deriva la nostra
trepida pace
da quella forza,
non da noi: meglio
ameremmo, noi, la contesa
ed il sangue
e lo scannatoio festoso.
Litigiosi ma vili quanto
volentieri trasformeremmo
uffici condomini salotti
ogni strada in palchi
di sapute violenze: così
la pace ci è imposta
ma la terza che avanza
la va sottraendo
senza sforzo, facilmente.


XIGeneroso ma invano
sarà l'ignorare
della terza che viene
il sonoro richiamo: e le fughe
e l'irresistibile amore
di chi cerca
una pace privata
e si dice
con grazia
neutrale
non muoveranno a pietà
chi contende sprovvisto
di onore e ricordi.Neppure
morire abbracciati
disarma chi vile
inconsapevole vive.


XIIArmarsi per primi
accettare la sfida
ma ordinati nei ranghi?
Così aspetteremmo la terza,
pronti alla barbarie
che monta e dalla legge
sorretti?


XIIIAspettando la terza
c'era chi allenava la mano
a sgozzare gli umani
facendo violenza
ai maiali.


XIVAspettammo la terza
ed era
di maggio. Il richiamo
solenne del tempo che torna
toglieva il respiro
e l'ansia d'amore
ci faceva la guerra
popolando di incanti e fantasmi
i giorni e le notti. Niente pace
ma una gioia
furiosa e contratta. Risoluti
imbracciammo le armi.
XVFummo male informati
(aspettando la terza)
dei torti subiti
e di come le colpe
andassero
distribuite? Esitammo
ma poi
rompemmo gli indugi.
XVIE la terza che viene
numerata sbiadisce
nell'ordine
progressivo il suo orrore.
Ellittica cifra
che alludi
a conseguenze ulteriori:
di un futuro presagio
saresti?






1996-98, inedita

Properzio, I, 3

Come
Una baccante, languida di danze,
in un prato si lascia cadere,
e lì giace;

quale Arianna quale Andromeda
abbandonate nel sonno,
così,
fu da me vista
Cinzia
quietamente spirare, mollemente dormire,
mentre i servi stanchi agitavano le fiaccole:
notte alta,
e io la guardavo

trascinando per la stanza i miei passi
ubriaco
la guardavo, tenendo il capo tra mani malferme.
No,
non ero fuori di me;
lei io
cercai d’accostare sul letto,
premendolo leggermente,
e due dei mi bruciavano
-il vino e il desiderio di lei-

avrei voluto
insinuando la mano, lievemente toccarla,
lievemente carpirle dei baci,
avrei voluto afferrare le armi d’amore;
tuttavia non osavo destarla
dalla sua quiete:
io la temevo.

Ma gli occhi tenevo fissi nei suoi,
nel suo viso;
e scioglievo dal mio capo corone di fiori
e sul tuo, Cinzia,
le posavo,
e provavo piacere a comporle i capelli sciolti,
e a disfarli,
e ponevo mele nelle tue mani
furtivamente,
ogni dono elargivo al sonno
indifferente, doni che sovente
sgusciavano dalla tua veste allentata.
E talvolta,
se traevi un sospiro,
un sussulto,
pensavo a vani presagi,
temevo che qualcuno ti volesse far sua; e tu non volevi;
ma la luna rapida lungo le finestre
scivolava,
la luna
il cui chiarore indugia,
sinché un raggio di lei
ti aprì gli occhi chiusi dal sonno…

lunedì 4 febbraio 2008

DISTINZIONE A CHERASCO

Fu lunga l’attesa, lì nel freddo, mentre la sera si posava sul Borsalino sistemato con ordine sulla lastra di marmo, tra i due calici di vetro e ottone: parlava piano, con intenzione rotonda, pause, interiezioni, accenti interrogativi, ora qua, ora là, e non era un soliloquio ma proprio un colloquio, piano, sereno.
Ma lei non rispondeva, e Antonio Rocciolatto insisteva tranquillo, e la sera ormai padrona del cimitero trasse da quel fondo di nero, in basso, la figura prima indistinta poi come per magia già vicinissima, al suo fianco, del custode che lo invitava ad accomodarsi, a uscire, era già passato l’orario di chiusura.
Raccolse il cappello, sistemò i fiori, seguì l’uomo sino al grande cancello, si scusò affabile come sempre, salutò. Si chiedeva perché sua moglie non gli avesse risposto: sapeva bene che i morti non parlano ai vivi, gli era tutto chiaro, non aveva un temperamento mistico e non credeva a nessuna forma di magia. Aveva 73 anni e non era rimbambito. Ma con altrettanta pacifica sicurezza era acutamente consapevole di essere, lui, unico e insostituibile, diverso da ogni altro essere vivente, di essere nella sua assoluta normalità – e mediocrità, anche, aggiunse bonariamente tra sé- speciale e irriducibile a tutto il resto, insomma di avere per ciò stesso, come tutti del resto, diritto ad una distinzione, a qualcosa solo ed esclusivamente sua: e lui da tempo aveva chiesto che quell’unico diritto, quell’unica distinzione consistesse nella possibilità di continuare a parlare con la sua adorata compagna anche dopo la sua morte, la morte di lei, da tempo annunciata, da tempo prevista.
Le diceva ridendo, quando la malattia era ormai avanzata: “Stai tranquilla, non preoccuparti, ti farò compagnia anche dopo”, ed anche, facendo gli occhi cattivi: “Mi toccherà sopportarti anche dopo, accidenti…”, ed era tutto contento di quella distinzione, che sapeva di aver meritato per il suo amore, la sua dedizione, la sua rinuncia a tutto il resto.
Quel giorno –era il primo dopo il funerale che aveva dedicato a lei con calma, a tu per tu- rimase un po’ interdetto, ma si disse che ci voleva forse del tempo, e che i morti hanno l’eternità davanti e devono di nuovo abituarsi ai poveri tempi stretti dei viventi per parlare con loro.
Così, tornò più volte, povero Rocciolatto: divenne una presenza consueta, le sue visite ritmavano il tempo degli altri, dei visitatori distratti, e pure ignorando chi fossero Henry James e Gorge Stransom cominciò, come quest’ultimo aveva fatto dell’altare nella chiesa, a considerare quel giardino e quei vialetti come il verde e grigio sfondo di tutta la sua vita.
La sua pazienza non venne mai meno e quei colloqui senza risposta alcuna con la lastra su cui qualche lichene aveva cominciato a disegnare i segni di un alfabeto che gli restava ignoto erano diventati dal primo pomeriggio sino al buio della chiusura un particolare tra i tanti di una città di morti affollata di steli, statue, alberi e iscrizioni.
Un giorno capì e seduto su una panchina fumando pensò e ripensò a quanto era stato stupido a non arrivarci prima, e a come fare per rimediare, la mente ordinata e precisa già all’opera su alcune soluzioni possibili: quella distinzione invocata richiedeva da parte sua un’azione, come si preme un bottone per avviare una macchina, come si muove una mano per afferrare un bicchiere. Una azione semplice, ma che avrebbe richiesto discrezione, silenzio, segretezza.
La Macchina nacque dalle sue mani addestrate ad ogni lavoro e dal suo cervello. Il questore l’avrebbe poi definita “leonardesca”, ammirato come tutti dall’ingegnosità delle soluzioni meccaniche, dalla funzionalità del tutto, dalla semplicità geniale dei dispositivi.
Cherasco splendeva nella luce meridiana di un giorno di ottobre quando si presentò in anticipo recando alcuni strumenti che – spiegò al custode divenuto ormai suo amico- gli servivano per dare una sistemata intorno alla tomba, se, naturalmente non esisteva qualche disposizione di regolamento contraria, aggiunse con un fine e mesto sorriso. Le disposizioni esistevano, non si sarebbe potuto, ma vista la persona, la sua scrupolosità, la sua distinzione, certo nessuno avrebbe detto di no al Dottore.
Antonio Rocciolatto chinò la testa alla parola “distinzione”, assentendo modesto, e dopo una rapida chiacchierata con la moglie, che ancora non rispondeva ma presto lo avrebbe inondato di frasi, sistemò gli attrezzi in una cappella abbandonata e uscì senza farsi vedere dal custode. Tornò più e più volte, sempre con attrezzi che faceva finta di riportare indietro, inframezzando con visite normali il suo affaccendato andirivieni.
Quando fu pronto si nascose alla chiusura e si fece chiudere dentro e nel buio con movimenti esperti raccolse le parti disperse della Macchina, la montò, la posizionò e cominciò ad aprire le tombe e con allegria crescente, pensando a sua moglie, iniziò a spostare i morti, trasferendoli da una tomba all’altra, da una casa all’altra, incrociandoli, escogitando scambi, e disegnando nella notte linee invisibili: i tragitti dei morti, i loro piccoli viaggi, il loro movimento.
Aveva capito perché sua moglie non gli rispondeva. In quella città tutto era fermo, immobile, congelato in un tempo che non si intersecava in nessun punto con quello suo e degli uomini vivi. La sua mente scientifica ne aveva dedotto che occorreva alterare in qualche modo quello status, increspare le acque di quello stagno ghiacciato, creare una dissimmetria in cui lui avrebbe potuto far valere la sua distinzione, il suo essere speciale, il suo privilegio: quello di parlare non con i morti, ma con lei, solo con lei, sua moglie. Era quella la distinzione che si era guadagnato, e la Macchina gli avrebbe permesso di avvalersene: lavorò duro e i lumini accesi gli davano come un senso di ebbrezza, il sudore gli si incollava sul collo, e il geniale sistema per spostare le bare con pochi leveraggi e ben oliati meccanismi gli permetteva di effettuare sforzi che nemmeno quattro uomini in forma perfetta avrebbero potuto sostenere.
Uscì alla chetichella il mattino dopo e una doccia e un riposo gli permisero di tornare la notte seguente e poi quella dopo e quella dopo ancora e infine si trovò pronto per andare da sua moglie.
Poggiò il cappello, si tolse gli occhiali, rassettò i fiori, seguì un merlo che saltellava guardandolo, e poi le chiese, esitante ma pieno di gioia: “Come stai oggi?”. Attese la risposta. Attese in silenzio. Ripetè la domanda, sempre quella, attese ancora, e guardò un po’ confuso gli agenti che venivano verso di lui seguiti dal custode che lo indicava con il dito, e a quegli estranei che gli facevano domande provò ad opporre anche lui –anche lui- un silenzio ostinato e poi in questura trovò più gentile dire qualcosa a quei signori che lo attorniavano e riaccompagnato a casa restò fermo dietro la porta, pensando.
Il giorno dopo una macchina lanciata contro un camion si schiantò in una nebbia leggera, che lasciava vedere il cielo così azzurro.
I giornali ipotizzarono tutti concordi e sbagliando tutti che Antonio Rocciolatto si fosse ucciso per la vergogna di una inchiesta per quei morti spostati. Nessuno aveva capito che oltre che geniale quell’uomo si sarebbe alla fine della sua vita dimostrato anche intrepido e razionale sino alle conseguenze ultime ed estreme. Non fu vergogna – e di che? Avrebbe detto con il suo mite sorriso-ma solo la constatazione che se la Macchina non era servita, se la sua distinzione non gli aveva permesso di ottenere ciò che più desiderava al mondo, allora ne derivava, indefettibile, la necessità di usare altri mezzi, un’altra macchina, una porta diversa, e nel precipitarsi contro quel benedetto ostacolo la sua domanda era già pronta.

2008, inedito

LAMINE E SOGNI

Per Nicola Zamboni, scultore

Un sottile frammento di latta, poi un pezzo di rame, che brillava rosso nella mano come un fuoco segreto. Ricordava la sensazione di allora, poco più che bambino: di pulito, di concluso, di pefetto e il primo piacere: torcere piegare modellare poggiare su un oggetto più duro ed imitarne sommariamente la forma. E l’odore. A quei tempi non sapeva che i metalli non hanno odore, e ne aspirava un freddo ristoro nei pomeriggi bruciati da quel sole padano.
Ma fu la luce a catturarlo per sempre, i bagliori impassibili che le superfici emettevano.
Fu così che Nicola Zamboni ignorando di essere uno scultore cominciò ad adorare le forme, e la replicazione infinita che l’universo gli offriva. A scuola seppe che esistevano uomini che di quella sua frenesia, di quella sua ansia di copia, avevano fatto un mestiere, forse una vocazione, obbedendo alla quale talvolta erano diventati famosi, più spesso erano rimasti ignorati da tutti; che delle cose che le loro mani avevano costruito si parlava come di opere, di oggetti il cui senso diventava argomento di storie, di interrogazioni, di stupore, di godimento.
Più grande vide ad una mostra che intorno alle sculture esposte i visitatori si fermavano e in alcuni di essi scorse nello sguardo il lampo di un riconoscimento, come se improvvisamente si trovassero davanti ad uno specchio, o a una finestra affacciata su un altro mondo, e decise che avrebbe fatto quello anche lui, sarebbe diventato uno scultore.
Ripensandoci, gli venne in mente quel motto di Nietzsche, posto in epigrafe a Ecce Homo: diventare ciò che si è. Ecco, si diceva, il compito più difficile per un uomo, non tradire sé stesso, e la grande casa nella campagna tra Bologna Modena e Ferrara, ingombra di attrezzi, lastre di metallo, banchi di lavoro, paranchi e, tra quella confusione spiccanti come frasi compiute percepite in mezzo al brusio, loro, le sculture, in diverse fasi di allestimento, quella casa gli sembrava non un porto di rifugio ma una base operosa da cui muovere incontro al mondo, in cui scambiare messaggi, discorsi, alimentare disegni, sostenere sfide.
Era vecchio e si sentiva giovane come quando stringeva la mano intorno a quelle lamine sottili, la luce così lenta dell’inverno padano gli si animava intorno in baluginii inaspettati, ed ora –ne era orgoglioso- splendeva intorno anche a quelle superfici difficili che tanti anni prima gli erano sembrate mute, fatte di materie più sorde: la terracotta, il marmo, il legno, tutto quello che aveva scoperto col tempo possedere dentro di sé la capacità di illuminare chi guarda.
Il suono gioioso del metallo gli era stato dato ascoltarlo e poi riprodurlo in quella sua furiosa epoca di apprendistato con Quinto Ghermandi, ma il resto, la lotta con la materia opaca, era frutto del suo testardo cercare e gli amici che aveva pazientemente rifatto, e le donne che aveva amato, e quella che amava adesso, se erano finiti tutti insieme ad animare un discorso ininterrotto riuniti in gruppo paziente in un giardino pubblico, se avevano avuto la forza di interpellare ogni giorno i passanti, era perché lui era stato capace di catturare la luce che li sfiorava trasformandola in domande:”chi sei?” chiedevano beffarde le grandi statue in terracotta di Pieve, “chi sono?” dicevano e il gioco dei riconoscimenti ricominciava ogni giorno.
Ma adesso era la volta dei sogni, e il sogno della notte appena trascorsa lo aveva chiamato all’impresa più difficile, pensava, e soppesava accarezzandole delle grandi lamine di bronzo, e il rosso gli imporporava la faccia. Come un tempo, ma non per tentare forme indecise, e neppure per costruire grandi figure, assemblando, unendo, completando, chiudendo. Adesso era per togliere, alleggerire, bucare, traforare, rendere vibranti e impalpabili le cose più semplici, quelle per cui solo alla fine di un lungo cammino ci si sente pronti, quelle la cui banale riconoscibilità domanda il rispetto dovuto al privilegio di essere vivi in un mondo così implacabilmente bello.
Come per un fiore, un’onda, la luna tra i rami. Si sarebbe pazientemente consacrato, per sempre, alle foglie.

2008, inedito

L'ECISTA

A Crotone l’ecista tornò 2748 anni dopo e si incazzò di brutto. Il mare, avvicinandosi non era viola, le increspature torpide e come oleose, e dov’era il profumo pungente del salmastro? Quando vide gli edifici enormi sparsi dappertutto emergere dalla foschia l’umore era già compromesso e la rena sporca su cui velocemente si appoggiarono le prue delle navi gli fece schifo.
La città bianca circondata dai boschi che ricordava era sparita: colline sventrate vomitavano un fango argilloso, e una folla indescrivibile occupava una strada lungo il mare. Nulla era come doveva essere, pensava guardando i compagni interdetti e esitanti.
Si lanciò per primo, mentre dalle navi disposte a ventaglio, una ogni 100 metri, i guerrieri prendevano terra dispondendosi in file serrate e i flauti cominciavano a battere il tempo, e donne e bambini sulle spiagge battevano le mani indicando con gesti felici e sorpresi le vele rosse, i costumi bellissimi, gli scudi che lampeggiavano al sole. Si fece largo tra la folla, attese che lo raggiungesse un vecchio che indossava una specie di toga, parlarono tra loro brevemente: nel gruppo di donne che li attorniava Maria Siclari veniva da un paese in cui si parlava ancora greco e le parve di distinguere alcune parole, le sembravano strane eppure familiari, con troppe “e” , ma “anghelos” e “thanatos”, quelle le udì proprio. Messaggero, morte. Il consigliere comunale Brancati, di opposizione, si appoggiò alla balaustra sulla passeggiata a mare e prese a scrivere furiosamente sul retro del grattino che aveva in tasca il testo di una interrogazione urgente con risposta scritta su quell’iniziativa evidentemente organizzata a sorpresa dall’Assessore alla cultura. Adesso pareva che tutta la città fosse accorsa a vedere.
Ci fu silenzio, i flauti tacquero, tutti trattennero il fiato nel vedere una splendida giovenca bianca, le corna adorne di nastri, calare imbragata dal ponte e poi, liberata, dirigersi placida verso il vecchio.
“Arrivano dal mare, come a Cervia!” disse rivolto agli amici un giovane, soddisfatto di far sapere a tutti che lui a Cervia non faceva solo il cameriere ma assisteva anche a spettacoli importanti, come quello teatrale che si ripeteva ogni anno sul lungomare.
L’ecista estrasse la spada dalla guaina: un “ooh!” di meraviglia si alzò dalla folla sorridente. Sorrideva anche lui. Diede un ultimo sguardo circolare sulla città orribile. E puzzava, anche; poi sempre sorridendo si diresse verso un gruppo di uomini cominciando a correre e lo attraversò sempre correndo facendo mulinare con grazia la spada: rotolò una testa, delle grida brevissime accompagnarono corpi che scivolavano a terra, un braccio, isolato, disegnò sulla sabbia un elegante ghirigoro, il rosso si insinuò tra le vesti grottesche dei caduti, e l’ecista era già sulla strada. Apprezzò l’improvviso silenzio, ed anche le urla stridule subito dopo. Senza bisogno di ordini i gruppi di guerrieri si rivolsero per primi contro gli assembramenti di uomini vestiti tutti allo stesso modo, pensando giustamente si trattasse di soldati. Cominciarono con quelli addobbati di nero, una striscia rossa sulle brache, e fu così che i locali carabinieri, tutti in servizio sul lungomare per il mercato del giovedì, vennero quasi completamente trucidati nei primi minuti. Nessuno riuscì a mettere neppure mano alle armi, e ci fu chi si fece docilmente tagliare la gola a bocca aperta per lo stupore. Un momento di confusione tra i guerrieri fu provocato dalle auto, ma ci misero poco a capire che bastava usare lo scudo per infrangere i vetri e tirare fuori le persone dentro come pesci da una nassa. I servi con le torce seguivano dappresso e trovarono con grande divertimento inesauribili esche per gli incendi che andavano appiccando: nessuna città conquistata così facilmente bruciava così bene.
Tra mucchi di cadaveri e il fuoco che divampava i guerrieri instancabili con ansiti brevi inseguivano e falciavano, inseguivano e atterravano. L’ecista si arrampicò dove ricordava una volta, in un altro tempo, in un altro mondo, che fosse il tempio di Era. Al suo posto una scatola enorme, sgraziata, intorno rifiuti, macerie, sporco ovunque: erano le proporzioni delle cose, a ferirlo, le dimensioni fuori scala, la numerosità, il troppo. I barbari si erano impossessati della sua città, ignari di armonia e bellezza.
La curiosità e l’ingegno di un greco sono inarrivabili: trovarono presto come rendere più veloce la distruzione completa. Della città non restò quasi nulla, degli abitanti solo quelli che erano fuggiti. Raccolsero le donne sulla spiaggia e ne scelsero le migliori. Schiave fortunate, avrebbero conosciuto la civiltà e la bellezza.
Il sacrificio della giovenca fu seguito da una rapida partenza. La bestia fu una macchia candida sulla rena grigia: e le navi nella caligine sfumarono una dietro l’altra, dirette ad altri ritorni.

2008, inedito

Paolo Nori- Siam poi gente delicata

Leggerlo è il meno. Studiarlo, bisogna: compulsarlo, annotarlo, rileggerlo, destrutturarlo.
Un libro incredibile, le cui ragioni oltrepassano di molto quelle pur nobili di un’impresa letteraria, di una volontà di condividere con altri un delicato moto dell’animo.
Lo scoliaste di fronte a quest’opera rimane prima interdetto, poi infastidito, infine vien colto da un dubbio che si trasforma in rovello: perché?
Perché un editore importante ospita in una sua collana sperimentale un testo siffatto? La pretenziosa struttura paratattica, la commistione così banale dei linguaggi, l’andamento rapsodico di riflessioni libere e legate da associazioni labili organizzate intorno alla metafora del viaggio (meglio, come dice l’autore, di una guida di cui esibisce il fallimento) non inducono prima facie a considerare quest’opera di Paolo Nori una cagata apocalittica? Una segatina da ginnasiale sprovveduto di fronte alla prof (beninteso se la chiamasse professoressa sarebbe tutt’altra cosa)?
La piana, pacifica, definitiva, direi addirittura ingegnosa, inutilità di una opera come questa dovrebbe però farci riflettere. Quel rovello, quel perché, chiedono una risposta, che non può semplicemente consistere nell’ipotesi di un errore. Errore a scriverlo, errore a proporlo, errore a pubblicarlo: troppi errori congruenti.
Il critico deve fare a questo punto parecchi passi indietro, e prendere le mosse da una “vista” sul mondo. Chiedere: “Vi piace? Vi piace quello che vedete?”. Guardate i giovani in branco. Vedete qualcuno con un giubbotto che non sia di color nero o al massimo “perso” come direbbe Dante se tornasse in questo inferno? Guardate i signori ben vestiti, quelli che una volta si chiamavano borghesi: vedete qualcuno sotto la pioggia con qualcosa di diverso da informi palandrane hi-tech?
Viviamo in un mondo in cui un parka azzurro o un montone o un trench spiccherebbero nella folla come inequivoci segnali di una diversità intollerabile, come incitamenti al linciaggio o al minimo ad una emarginazione totale.
Avete appena visto quello che i sociologi chiamano omologazione ed anche, al tempo stesso, l’effetto di un inebetimento generale, di una condivisa e soddisfatta rinuncia a pensare.
Se dunque il mondo è questo, come rappresentarlo? Come consegnare ai pochi ancora in grado di capire e alle generazioni future (se ce ne saranno) una descrizione di questa temperie culturale, di questo scivolare verso il nulla, insomma della fine dell’Occidente?
Lo svagato e inutile trapestare con le parole di Nori ecco che ci dà la misura pefetta di questa devastante deriva. Il suo stile ansimante ed erratico ci descrive meglio di tanti saggi il procedere, gli effetti, i meccanismi del discorso pubblicitario, che è rimasto l’unico compatibile con i tempi e le capacità di ricezione del pubblico.
Quello che sembrava un testo senza capo né coda si rivela non solo un capolavoro, ma una fonte inesauribile di riflessione, un memento, un’accorata e dissimulata preghiera. Leggerlo non basta, dicevo. Resistete alla tentazione di gettarlo nella spazzatura (quella differenziata per la carta) e riponetolo tra la Bibbia e i Cantos di Pound: sarà un viatico nel nostro viaggio tra la desolazione e gli imbecilli.

Laterza, controcanto