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POLAROID

giovedì 7 febbraio 2008

INTRODUZIONE A DIARIO DI PRIGIONIA

Umberto Saraceni, Diario di Prigionia, Minerva Editore, 2002


INTRODUZIONE

Essere soldato, essere soldato
Tolstoj, Guerra e Pace


L’otto settembre 1943 ad Agrinion, capoluogo dell’Acarnania e sede del comando dell’VIII Corpo d’Armata italiano in Grecia, si aprì su una giornata bellissima: il monte Panetolikò ad oriente si stagliava sul cielo azzurro e l’odore pungente del tabacco, che pervadeva tutta la città, era particolarmente forte in Odos Suliou . Al n.41 in una bella casa, appunto sopra uno dei grandi magazzini che rifornivano le fabbriche di Papastratos, alloggiava un capitano italiano, magistrato presso la sezione di Agrinion del Tribunale Militare di Guerra di Atene.
Da tempo la guerra aveva lasciato il posto ad una sorta di pace ambigua, che con la fine delle operazioni militari, le strette relazioni che gli occupanti italiani intrattenevano con la popolazione, il confronto continuo con il comportamento sprezzante dei tedeschi, andava configurando una precaria normalità, cui soldati ed ufficiali si attaccavano quanto e forse più dei greci. I partigiani, già attivi, si limitavano ad operare sui monti e comunque per il momento selezionavano gli avversari: era per questo che la Bianchi gialla del Tribunale ( color sabbia, ma ad Agrinion la conoscevano tutti come la macchina gialla, kìtrino aftokìnito) poteva attraversare senza pericolo la gola di Klisura e arrivare a Missolungi e tornare.
Tra la pace e la guerra, in quel clima sospeso, si preparava l’uscita dell’Italia dal conflitto, che il 25 luglio pareva aver reso possibile, si pensava già al ritorno e intanto prendeva sempre più corpo il mito dell’Armata Sagapò, alimentato dalle storie d’amore che erano nate e che in molti casi sarebbero continuate dopo la guerra ma più ancora dalla reazione dei greci, padri, familiari, opinione pubblica: le ragazze e le donne potevano essere disapprovate, ci si opponeva spesso a legami che si immaginavano senza futuro, ma mai vennero emarginate e additate al pubblico odio come invece avvenne in tanti altri teatri di guerra.
Il capitano che si era installato in quella bella casa nell’ottobre del 1941 vi aveva trovato una famiglia cui si era subito affezionato e per l’appunto anche tre sorelle, della più giovane delle quali, che al suo arrivo aveva appena 14 anni, si era ben presto innamorato.
Si chiamava Umberto Saraceni, veniva da Orvieto, e pur essendo figlio di una medaglia d’argento al valor militare, morto eroicamente, da capitano come lui, nella guerra precedente, aveva coltivato gli istinti guerreschi il meno possibile: come tenente dei carabinieri, assegnato alla Legione di Tirana, aveva combattuto, appena mobilitato , in prima linea tra Grecia ed Albania. Tornato in Italia ed entrato nel corpo della Giustizia Militare dopo una prima permanenza a Verona era stato assegnato ad Agrinion, dove se il grande lago a sud della città gli ricordava talvolta la sua Bolsena tutto il resto avrebbe dovuto ribadirgli il suo essere estraneo, la sua condizione di occupante, la lontananza dai luoghi che amava. Ma aveva dimostrato rispetto per la popolazione civile, aveva esercitato le sue funzioni con un senso profondo di umanità e di giustizia, si era fatto benvolere e ben presto aveva cominciato a sentirsi quasi a casa, così come stava capitando a tanti dell’XI Armata in Grecia.
Mentre sugli altri fronti la guerra prendeva per l’Italia una piega tragica e i tedeschi già da luglio avevano pronti i piani per mettere in condizioni di non nuocere gli alleati, l’estate passava in attesa.
La sera dell’otto settembre arrivò la notizia dell’armistizio e il giorno dopo dal Comando di Atene l’ordine di consegnare le armi pesanti ai tedeschi. Da Agrinion, sede del comando dell’VIII Corpo d’Armata, l’ordine venne diramato a sua volta alle unità dipendenti, tra cui la Divisione Acqui di Cefalonia.
Da quel nove settembre hanno inizio le vicissitudine raccontate in questo diario, scritto su minuscoli quaderni conservati gelosamente e difesi a rischio della vita per due lunghi anni. Con l’inganno e con la forza, dalla Grecia e dalla Jugoslavia, dalla Francia, dall’Italia stessa, centinaia di migliaia di soldati ed ufficiali vennero dai tedeschi catturati, disarmati e raccolti in campi di concentramento in Polonia e Germania, dove non avrebbero avuto riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, con i diritti e le garanzie che ne conseguivano, ma quello ambiguo e ricattatorio di Internati Militari Italiani, che con una semplice dichiarazione di adesione alla RSI avrebbero potuto liberarsi e tornare a combattere a fianco dei tedeschi.
Ciò che rende straordinaria l’avventura dei militari italiani deportati in Germania è appunto questo: il fatto che sarebbe bastato poco per sottrarsi ad una prgionia dura e che, come questo diario testimonia, sarebbe diventata sempre più dura nell’intento di convincere i riottosi italiani a più miti consigli. Di circa 650.000 italiani catturati solo il 10 per cento optarono per la RSI: tutti gli altri ostinatamente si rifiutarono e 70.000 di essi non fecero ritorno.
Da quel rifiuto non solo le forze armate ma l’Italia stessa trasse alimento e forza per ricostruire un senso di identità nazionale dopo la guerra. Uniti da quel “no” testardo ufficiali e soldati si trovarono accomunati, al di là di divisioni di classe, di cultura, di ceto, in una stessa visione del loro futuro. Fu un rifiuto esercitato senza ideologismi, senza proclami, con l’eroismo inconscio e naturale dei veri soldati: quello che faceva ammirare al conte Pierre Bezuchov in Guerra e pace l’ostinato e pacifico coraggio dei soldati russi impegnati contro i francesi invasori.
Fu certo la qualità del nemico, il fastidioso senso di superiorità e il disprezzo esibito nei confronti degli italiani, a cementare quel rifiuto, quell’insistito e quasi snobistico rimanere fedeli al giuramento prestato.
Di quell’inferno il capitano Saraceni fece con un coraggio ed una forza che ignorava di possedere tutte le tappe: un viaggio attraverso l’Europa intera, da Altengrabow a Siedele, a Sandbostel a Fallingbostel, iniziato il 21 settembre 1943 ad Agrinion e terminato il 3 settembre 1945 con il ritorno in Italia. Due anni in cui con tranquilla ostinazione avrebbe continuato a riaffermare le ragioni del diritto, istituendo e difendendo un ufficio giustizia attraverso cui non solo punire i reati commessi all’interno dei campi ribadendo l’estraneità dei prigionieri alle leggi tedesche, ma anche prendere nota dei pochi che passavano al nemico; ma due anni trascorsi sotto il segno della poesia e dell’amore.
Ridotto quasi a uno scheletro, mentre andavano prendendo corpo soluzioni finali da parte dei tedeschi ormai alla disperazione, fu sino all’ultimo sostenuto dalle due più generose ossessioni dell’uomo: la poesia e l’amore, appunto. Poesie che compaiono nel diario ma anche sei canti in terzine dantesche, in cui un Dante stranito torna a visitare i nuovi dannati a Sandbostel, nella “città di legno”. E un amore soprattutto: un amore lontano, come in ogni storia di guerra, che attraversa tutte le pagine del diario, che accompagnava tutte le sue giornate. Alla ragazzina che aveva lasciato ad Agrinion aveva fatto la promessa che sarebbe tornato, e lei contro l’evidenza di un distacco brutale che pareva per sempre, contro il silenzio durato mesi e mesi, nonostante l’impossibilità di ricorrere agli uffici della Croce Rossa, come accadeva per tutti gli altri prigionieri di guerra, malgrado i tentativi della famiglia di farle scordare un amore impossibile aveva continuato a scrivere lettere e a spedire pacchi, pochissimi dei quali giunti a destinazione, ma quei pochissimi, forse, come raccontato nel diario, in grado di salvargli la vita.
Si sarebbero poi sposati, cinque anni dopo essersi visti per l’ultima volta, lei ormai una donna, lui un magistrato reputato e stimato per l’equilibrio, reduce dall’importante processo a Graziani, quello stesso gerarca che da ministro della guerra della RSI aveva pervicacemente ignorato le sofferenze di tanti compatrioti. Erano, quelli, mio padre e mia madre. Accompagnavano il diario molti documenti, che mio padre riteneva importanti per offrire riscontri oggettivi a quanto raccontato, quasi temesse l’incredulità di chi non aveva vissuto quelle brutalità e quell’accanimento: disegni di compagni di prigionia, foto, documenti ufficiali dell’amministrazione dei campi. Molto si è perso e il suo rimpianto maggiore era per i disegni di Guareschi, che aveva conosciuto durante la permanenza a Sandbostel. Tra le cose rimaste c’è la foto che gli ordinati tedeschi facevano ad ogni prigioniero, con il numero ben in evidenza: come quella che illustra il Diario clandestino di Guareschi, quella del capitano Saraceni (ma promosso maggiore a sua insaputa) ritrae un italiano pacifico ma molto, molto deciso a resistere con ogni mezzo.

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