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lunedì 31 marzo 2008

L’ARTE DI TACERE - ABATE DINOUART

"Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen”


Si parla e si scrive male, troppo, non abbastanza. L’Abate Dinouart si rivolge a noi, da un passato così lontano, con la perspicacia di chi la sa davvero lunga, come se un tunnel temporale tutto suo gli avesse consentito di sbirciare in una libreria Feltrinelli, dove si macinano libri a guisa di coriandoli oversize, oppure di ascoltare il cicaleccio demente di umani sconvolti ridotti a protesi di cellulari.
E’ evidente, lui sapeva come sarebbe andata a finire, con l’ozono che scarseggia e un plasma di significanti che invece si gonfia e ci inghiotte. Ci racconta che i torchi nella Francia del settecento gemevano per i troppi libri pubblicati, ma lo immaginiamo ritrarsi con un moto di orrore dalla subitanea e folgorante visione, insinuatasi attraverso le pieghe dei secoli, delle opere di Fabio Volo. Quell’incipit così stentoreo e conciso: “si deve smettere di tacere solo quando si abbia qualche cosa da dire che valga più del silenzio”, suona per noi come ammonimento e sconsolata condanna, epitaffio su un mondo perduto al senso. Ma ammicca anche ad un filone di riflessione della filosofia del novecento che ha visto nell’interdetto di Wittgenstein ( di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere) e nel regno della chiacchera di Heidegger i capisaldi di una resistenza al moderno che avanza destinata ad un superbo fallimento.
Eppure un dubbio rimane: che l’Abate si rivolgesse a sé stesso, inconsapevole che le critiche agli altri funzionassero egregiamente come quei missili negligenti che tornano indietro a colpire chi li ha lanciati, attratti da segnature radar o termiche più ghiotte di quelle dei bersagli improvvidamente designati. Se si scrivono cose inutili, non si indica forse il libro stesso che ne parla? Se si scrive su argomenti che andrebbero evitati ci viene il sospetto che l’Abate pensasse a quel Triomphe du sexe, in cui argomentava non solo sulla parità dei sessi ( tesi che se presentata anziché nel secolo dei lumi in quello della controriforma gli avrebbe assicurato uno stretching da urlo, con quattro cavalloni da tiro a snodargli le giunture) ma addirittura sulla superiorità delle donne: e si beccò comunque una bella scomunica.
Genio precursore o idiota schifato anche dalla famiglia: tra queste due alternative si gioca non solo il giudizio dei posteri sull’Abate Dinouart, ma si stende anche il campo di indecidibilità e incertezza del gioco superbamente inutile che è la letteratura.

Castelvecchi

lunedì 4 febbraio 2008

Paolo Nori- Siam poi gente delicata

Leggerlo è il meno. Studiarlo, bisogna: compulsarlo, annotarlo, rileggerlo, destrutturarlo.
Un libro incredibile, le cui ragioni oltrepassano di molto quelle pur nobili di un’impresa letteraria, di una volontà di condividere con altri un delicato moto dell’animo.
Lo scoliaste di fronte a quest’opera rimane prima interdetto, poi infastidito, infine vien colto da un dubbio che si trasforma in rovello: perché?
Perché un editore importante ospita in una sua collana sperimentale un testo siffatto? La pretenziosa struttura paratattica, la commistione così banale dei linguaggi, l’andamento rapsodico di riflessioni libere e legate da associazioni labili organizzate intorno alla metafora del viaggio (meglio, come dice l’autore, di una guida di cui esibisce il fallimento) non inducono prima facie a considerare quest’opera di Paolo Nori una cagata apocalittica? Una segatina da ginnasiale sprovveduto di fronte alla prof (beninteso se la chiamasse professoressa sarebbe tutt’altra cosa)?
La piana, pacifica, definitiva, direi addirittura ingegnosa, inutilità di una opera come questa dovrebbe però farci riflettere. Quel rovello, quel perché, chiedono una risposta, che non può semplicemente consistere nell’ipotesi di un errore. Errore a scriverlo, errore a proporlo, errore a pubblicarlo: troppi errori congruenti.
Il critico deve fare a questo punto parecchi passi indietro, e prendere le mosse da una “vista” sul mondo. Chiedere: “Vi piace? Vi piace quello che vedete?”. Guardate i giovani in branco. Vedete qualcuno con un giubbotto che non sia di color nero o al massimo “perso” come direbbe Dante se tornasse in questo inferno? Guardate i signori ben vestiti, quelli che una volta si chiamavano borghesi: vedete qualcuno sotto la pioggia con qualcosa di diverso da informi palandrane hi-tech?
Viviamo in un mondo in cui un parka azzurro o un montone o un trench spiccherebbero nella folla come inequivoci segnali di una diversità intollerabile, come incitamenti al linciaggio o al minimo ad una emarginazione totale.
Avete appena visto quello che i sociologi chiamano omologazione ed anche, al tempo stesso, l’effetto di un inebetimento generale, di una condivisa e soddisfatta rinuncia a pensare.
Se dunque il mondo è questo, come rappresentarlo? Come consegnare ai pochi ancora in grado di capire e alle generazioni future (se ce ne saranno) una descrizione di questa temperie culturale, di questo scivolare verso il nulla, insomma della fine dell’Occidente?
Lo svagato e inutile trapestare con le parole di Nori ecco che ci dà la misura pefetta di questa devastante deriva. Il suo stile ansimante ed erratico ci descrive meglio di tanti saggi il procedere, gli effetti, i meccanismi del discorso pubblicitario, che è rimasto l’unico compatibile con i tempi e le capacità di ricezione del pubblico.
Quello che sembrava un testo senza capo né coda si rivela non solo un capolavoro, ma una fonte inesauribile di riflessione, un memento, un’accorata e dissimulata preghiera. Leggerlo non basta, dicevo. Resistete alla tentazione di gettarlo nella spazzatura (quella differenziata per la carta) e riponetolo tra la Bibbia e i Cantos di Pound: sarà un viatico nel nostro viaggio tra la desolazione e gli imbecilli.

Laterza, controcanto

martedì 18 dicembre 2007

Serena Vitale - Il bottone di Puskin

“Questo su e giù da topo della vita…”
Puskin


Perché è morto Puskin? Chi lo indusse al duello in cui venne ucciso? Fu un complotto? Lo zar voleva eliminare il poeta scomodo? Poche centinaia di pagine di sicuro non bastano a ricostruire con certezza i fatti così controversi. E quel bottone slacciato è una metafora o una dimenticanza? Il libro della Vitale orchestra con grande maestria episodi diversi, incontri, brani di lettere, diari, documenti di ogni genere estratti da archivi sapientemente interrogati, tutti disposti in controcanto alla vita di società della Russia degli anni trenta dell’ottocento: balli, ricevimenti, salotti, gite in slitta, amori, intrighi. Si dovrebbe dire un affresco memorabile, al cui centro campeggia il poeta tanto amato dai suoi contemporanei e dall’autrice, e da cui dovremmo ricavare il senso di una vita segnata, di un tragico destino. Ma inoltrandosi nell’intrico dei fatti, tra i tanti nomi di personaggi che hanno depositato nella storia solo le tracce di quel fugace incontro con un grande poeta per essere poi di nuovo inghiottiti nel nulla di un cieco passato, in un insistito esercizio della indiscrezione che guarda da dietro le porte, che spia e registra i motivi nascosti –l’avidità degli uni, il bisogno di denaro degli altri, la gelosia o la voglia di rivalsa di molti, la piccineria di tutti, le frustrazioni della vita quotidiana- ecco che va configurandosi, la narrazione, come un pretesto, in cui Puskin scompare per fare posto all’insensatezza della vita.
E’ lo stupido e impassibile mortaio in cui si pestano e si riducono a polvere le storie individuali, in cui si prepara il nulla che azzera le intenzioni, i progetti, le aspirazioni di tutti, principi, condottieri, scrivani, poeti, belle donne. Non è più di Puskin che si parla, ma di noi, anche se quel pretesto così evocato resta non voluto ma subito. La devozione di Vitale al suo poeta traluce nella faticata ricostruzione degli avvenimenti come un patetico memento, continuamente contraddetto da un esito che gli fa torto, che consegna Puskin al gioco del caso e gli toglie anche il riconoscimento di una presa di senso attraverso la morte così a lungo cercata. Una morte che doveva suggellare con una direzionalità esemplare la sua vita di poeta viene ascritta al gioco perverso di uno scimunito e di una sventata, e retrocessa, nei fatti, da destino a volgare inciampo.
Diventare finalmente quel che si è, come sapeva troppo bene Nietzsche, è un esercizio che impegna tutta la vita, e dei grandi poeti si dovrebbe solo trovare e dipanare quel filo che riscatta per noi tutti il nulla che ci mastica impassibile. Quel filo sono le opere e, talvolta, esse prevedono e pretendono una morte significativa, quella di Byron a Missolungi, quella di Shelley con il suo Ariel, quella di Puskin in duello.
Tacere, al massimo accennare: ci sono dei casi in cui il velo sulle cose fa vedere tutto, fa vedre meglio.

Adelphi

Edoardo Sanguineti - Come si diventa materialisti storici?

Ecco un libro che un critico letterario non dovrebbe recensire. Solo apparentemente, però. Si tratta infatti a prima vista di un manuale, che con l’uso della lingua a fini espressivi non sembrerebbe aver nulla a che fare. Diventare materialisti storici con le chiare istruzioni dell’autore è una cosa facilissima, non più che diventare vegetariani o imparare a fare ogni riparazione in casa. Certo, si tratta di una cosa diversa, ma solo perché particolarmente chic, un po’ come imparare a pescare con la mosca: roba per pochi intenditori. Basta cercare un proletario e farselo amico, imparare a memoria la prefazione del 67 di Lukàcs al suo Storia e coscienza di classe, citare in francese Sartre e farsi cofanate di Moravia vomitando e rileggendolo compulsivamente sino a che cominciate a sentire la coscienza di classe farsi strada nell’emisfero sinistro del vostro cervello. Installata la coscienza di classe il più è fatto e voi siete già dei materialisti storici in formazione. Il libro non manca di dare utili consigli sulla manutenzione della coscienza di classe, che richiede episodiche e non troppo intense letture di Brecht e Benjamin, alternate a spruzzate di Gramsci (senza esagerare).
Ma Sanguinati è stato un grande poeta del Gruppo 63, e critico e storico della letteratura. Ecco dunque che ad un esame più approfondito il concatenarsi delle argomentazioni, i ricordi della giovinezza a Torino, e lo stesso stile piano e non ricercato, l’andamento un po’ divagato che rimanda ad una conversazione tra amici in una scuola di partito, il delizioso elogio del comunismo, disegnano un controtesto che non tarda ad apparire: si tratta di una lunga poesia mascherata da manuale che mima una lezione di storia del pensiero. Una struggente palinodia in cui la poesia si annulla nella vita che scorre e di questo nulla si alimenta per tratteggiare con rimpianto le piccole cose che abbiamo amato: gli operai, il comunismo, la contraddizione, l’autocritica, la sovrastruttura, l’ideologia e via dicendo. In un gozzaniano bric-à-brac appaiono in controluce le sezioni, Vie nuove, il compagno segretario che tira le conclusioni, la distribuzione dell’Unità la domenica, la festosa primavera del 45. La chiusa di questa lunga poesia, che sapientemente ricalca la struttura delle Odi di Orazio, è dedicata all’odio di classe, e con un piglio degno del grande Villon ci ammonisce ad esercitare la santa virtù della sgarbatezza: “occorre essere sgarbati, sgarbati, sgarbati e carichi di odio nei confronti di coloro che non appartengono al proletariato”. Di fronte a questi versi il dire trema: e non ci sono più parole.

Manni, 6 euro