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martedì 18 dicembre 2007

Serena Vitale - Il bottone di Puskin

“Questo su e giù da topo della vita…”
Puskin


Perché è morto Puskin? Chi lo indusse al duello in cui venne ucciso? Fu un complotto? Lo zar voleva eliminare il poeta scomodo? Poche centinaia di pagine di sicuro non bastano a ricostruire con certezza i fatti così controversi. E quel bottone slacciato è una metafora o una dimenticanza? Il libro della Vitale orchestra con grande maestria episodi diversi, incontri, brani di lettere, diari, documenti di ogni genere estratti da archivi sapientemente interrogati, tutti disposti in controcanto alla vita di società della Russia degli anni trenta dell’ottocento: balli, ricevimenti, salotti, gite in slitta, amori, intrighi. Si dovrebbe dire un affresco memorabile, al cui centro campeggia il poeta tanto amato dai suoi contemporanei e dall’autrice, e da cui dovremmo ricavare il senso di una vita segnata, di un tragico destino. Ma inoltrandosi nell’intrico dei fatti, tra i tanti nomi di personaggi che hanno depositato nella storia solo le tracce di quel fugace incontro con un grande poeta per essere poi di nuovo inghiottiti nel nulla di un cieco passato, in un insistito esercizio della indiscrezione che guarda da dietro le porte, che spia e registra i motivi nascosti –l’avidità degli uni, il bisogno di denaro degli altri, la gelosia o la voglia di rivalsa di molti, la piccineria di tutti, le frustrazioni della vita quotidiana- ecco che va configurandosi, la narrazione, come un pretesto, in cui Puskin scompare per fare posto all’insensatezza della vita.
E’ lo stupido e impassibile mortaio in cui si pestano e si riducono a polvere le storie individuali, in cui si prepara il nulla che azzera le intenzioni, i progetti, le aspirazioni di tutti, principi, condottieri, scrivani, poeti, belle donne. Non è più di Puskin che si parla, ma di noi, anche se quel pretesto così evocato resta non voluto ma subito. La devozione di Vitale al suo poeta traluce nella faticata ricostruzione degli avvenimenti come un patetico memento, continuamente contraddetto da un esito che gli fa torto, che consegna Puskin al gioco del caso e gli toglie anche il riconoscimento di una presa di senso attraverso la morte così a lungo cercata. Una morte che doveva suggellare con una direzionalità esemplare la sua vita di poeta viene ascritta al gioco perverso di uno scimunito e di una sventata, e retrocessa, nei fatti, da destino a volgare inciampo.
Diventare finalmente quel che si è, come sapeva troppo bene Nietzsche, è un esercizio che impegna tutta la vita, e dei grandi poeti si dovrebbe solo trovare e dipanare quel filo che riscatta per noi tutti il nulla che ci mastica impassibile. Quel filo sono le opere e, talvolta, esse prevedono e pretendono una morte significativa, quella di Byron a Missolungi, quella di Shelley con il suo Ariel, quella di Puskin in duello.
Tacere, al massimo accennare: ci sono dei casi in cui il velo sulle cose fa vedere tutto, fa vedre meglio.

Adelphi

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