PIEVE

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lunedì 26 dicembre 2011

Una Crociera

E' il 21 agosto del 2011. I casi d'Italia volgono al peggio. Il sistema finanziario ed economico mondiale si avvita in recessioni e crisi sempre più frequenti nel tentativo di dimostrare ai neoliberisti che Marx aveva proprio ragione. La guerra di Libia si sta concludendo in una penosa imitazione del bellum jughurtinum, con Gheddafi che appare e scompare: la storia si ripete incessante. E' il 21 agosto, e partiamo sotto un'ondata di calore che pare proprio in tema con una fuga - una fuga da un paese che muore per liquefazione, dal lavoro di ogni giorno, dalle piccole noiose questioni, dalle paure dei malati, dalle ansie, dalle burocrazie.

"E' una bellissima idea,facciamolo" dissi in tono convinto, senza rendermi ben conto di quello che stavo facendo. Era una bella giornata di luglio e la Lunigiana splendeva di colori e l'aria era fresca ed io mi sentivo in quel preciso momento forte e avveduto e sagace come un cinghiale dei boschi intorno alla casa.
"D'accordo. Sarà una crociera per rilassarci. Bagnetto, calette, e ogni tanto la vela se le condizioni lo consentono in piena sicurezza" disse Dario.
Io costellavo di "bellissimo" ogni pochi secondi la sua esposizione del programma e la descrizione della barca e l'illustrazione delle meraviglie che ci attendevano e per meglio esprimere il mio entusiasmo non lesinavo in mugolii di adesione incondizionata.
"L'importante è però che tu stia bene. Devi arrivare al giorno della partenza nelle migliori condizioni e poi mantenertici per tutta la durata della crociera".
Mi resi conto che qualcosa si era messo di mezzo a intralciare il moto perfetto degli ingranaggi dei desideri degli impulsi degli appetiti che girano a pieno ritmo per produrre quasi nulla.
Il fatto è che se Dario mi avesse proposto una marcia a piedi nella foresta amazzonica seguendo un certo percorso che consente di sopravvivere ai ragni ai serpenti e ai coltivatori abusivi di alberi della gomma o mi avesse suggerito una vacanza su uno dei satelliti di Saturno avrei detto subito di si, e il tono entusiasta della mia risposta dipendeva da questo gioco di confrontare e misurare cose possibili ma non realizzabili in uno scambio frenetico di voglie. Che poi lui ogni tanto realizzasse i suoi desideri di lunghi viaggi o di esplorazioni davvero , cioè nella realtà e non nell'immaginario non cambiava nulla nel mio stanco narcisismo, che gode a figurarsi il mondo come se io ne facessi parte: un Tin Tin tra gli indiani, tra i berberi, sulla luna, in ogni possibile combinazione e ruolo e sfondo.
Guardai meglio Dario. I baffetti vibravano, le sopracciglia erano rilevate e tese, l'occhio era concentrato su di me ed esprimeva non semplice interesse o convinzione ma desiderio di aiutarmi e al tempo stesso il riflesso di un ancestrale modo che hanno i siciliani di prendere un impegno e di vincolare al rispetto del contratto - in quel momento lo vidi scritto sul suo volto chiarissimamente- ,un baluginare della pupilla che si fa a tratti ammonitrice con un'ombra di minaccia.
Diceva sul serio. Io come un pollo avevo detto di sì. Le sue uniche vacanze tanto attese e preparate le aveva vincolate con generosità ad un idiota malato, forse piu' idiota che malato.
Francesca e Mavi erano presenti, ma mentre Mavi aveva senza dubbio avuto modo di parlarne prima con Dario e dato il suo consenso a quella pericolosa proposta che metteva a rischio anche le sue vacanze, Francesca rimase sorpresa, compiaciuta e se non contraria, fortemente perplessa. Combattuta tra il desiderio di stare tra amici cari a godersi il mare e il sole di Sardegna e la paura di rovinare l' unico momento di pace e intimità a due persone che fanno parte del ristrettissimo club degli umani in cui si riconosce.
Ma non disse niente. Mi mando' segnali di avvertimento con le sue occhiate ma io avevo dimenticato il codice e solo dopo capii che lei sapeva dal primo momento che Dario parlava sul serio e che io non l'avevo capito.
"D'accordo, allora" ripeté Dario ed io che mi ero reso conto troppo tardi di quanto fosse grande il suo gesto, fatto con quella che Della Casa chiamava sprezzatura e che solo un gentiluomo siciliano sa elevare oggi ai livelli dell'arte, io mi sentii certo investito di una grande responsabilità' ma soprattutto mi scoprii soddisfatto e felice. Poi - ma dopo vari giorni- preoccupato e ansioso. Poi commosso.
Checché se ne dica il mio egoismo è inclusivo. Ho impiegato quaranta anni per capirlo. Per spiegarmi meglio senza scomodare la psicologia del profondo, ebbene sì sono un porco egoista e me ne vanto, ma proprio perchè lo sono e non mi avvolgo in chiacchere per negarlo, dirò' che del mio io e del mio mondo esclusivo fanno anche parte, o meglio fungono da elementi costitutivi, le persone, pochissime, cui voglio bene, le cose, poche, cui sono legato davvero al punto di non potermi neppure pensare se privo: che so, la Grecia, una canzone rebetica, il mio cane. E prima le persone, poi le cose, sono semplicemente me, sono io. Non sarei io senza Francesca. E neppure senza Dario, lui più di un fratello.

Mi ritrovai cosi' dopo anni a tornare in barca e a fare precisamente quella crociera che avevo progettato, preparato, voluto, studiato e naturalmente mai realizzato. Con naturalezza e semplicità, per un caso, per volere di due amici che sapevano cosa rischiavano.
Io invece ci misi del tempo anche solo a capire che non stavo tanto bene e che forse non sarei stato in grado neppure di dare una mano alle manovre e così rientrai nel mio mondo fantastico e mi guardai intorno e vidi rovina imminente e politici corrotti e incapaci e crisi mondiale e trovai una soluzione di fuga letteraria: ed eccomi accolto,mentre nel 1348 la peste infuria, tra i pochi gentiluomini e gentildonne che in una villa fuori Firenze schivano malattia e morte mentre il mondo barcolla e loro, giù' a raccontarsi storie e a dar vita al Decamerone.
"Le medicine? Le hai prese?" fece Francesca.
"Ricordati di venire a fare le analisi prima di partire" rincarò Mavi.
Era passato qualche giorno e c'era sempre modo di risospingermi nell'universo delle cose che accadono, mentre io acquistavo montagne di cose forse indispensabili per un giro del mondo ma non certo per due settimane ad agosto in Sardegna. Ora capitano Achab ora vecchio marinaio greco continuavo a dimenticare che sulla barca ce ne sarebbe stato uno solo e non ero io.
Agosto tra Filetto e Malgrate si insinuo' dolcemente come se sapesse cosa fare di noi, del tempo che passava, di un cambio di stagione che suggeriva appena infischiandosene di Tremonti Bossi e Berlusconi. Porto' con se' come al solito i compiti per le vacanze che le burocrazie occhiute e malvagie danno da fare ai sudditi prima di chiudere e di andare loro in vacanza, nei casi di grande successo personale sussidiati da ricche tangenti e puttane dette escort nella neolingua che desta ribrezzo giusto e sacrosanto nei pochissimi italiani rimasti: parcelle, fatture, intimazioni, minacce, sentenze esecutive, cartelle esattoriali, sfracelli. Io meditavo sulla storia d'Italia e godevo all'idea che dalla tassa sul macinato alle mille di oggi cambia solo il nome e che forse questo era il modo migliore di celebrare i centocinquanta anni della infausta nascita di un paese inesistente e mi consolavo figurandomi le cose più improbabili che sarebbero certo accadute durante il nostro assalto alle isole della Gallura.
"Mi raccomando. Occhio. Non esagerare col cibo. Devi star bene" mi ripeteva il siciliano e se l'avesse detto nella sua lingua sarei rabbrividito anche se era Dario.
E mi perdevo in malinconie che erano molto in tono con le prime nebbie che salivano dalla Magra e non ero più' un prode marinaio ma un vecchio che riandava indietro col pensiero a ricordare le cose belle che aveva vissuto e le mettevo coscientemente in fila, Birko il mio primo cane (che rischiò, di rimanere l'ultimo perché' era pazzo), la mia gatta Sally che faceva le fusa, la prima volta che ascoltai la Sagra della primavera, la prima volta che affondai dolcemente nella vagina del mio primo amore in una demenziale Austin A 40, la prima volta che scoprii con sommo stupore a Cotignola che le mazurche non le ballavano solo nei film di John Ford e che i cappelletti al ragù erano una delle otto prove dell'esistenza di Dio e la prima volta che feci l'amore con Francesca dopo che mi aveva svuotato la casa e trasferito d'imperio nella sua e la luna brillava attraverso la tenda, Percy cane poeta che saltava sul letto, Serifos e Sifnos nel primo viaggio con Francesca e via affondando in un mare di prime volte che mi lasciava senza fiato, e mi costringeva a pensare che tutto è una prima volta e che è questo per dirla con Cummings il banale privilegio di essere vivi, e allora mi fermavo e cominciavo a pensare poesie (di quelle ne posso secernere a chili,come l'ape di Marx) e poi Dario tornava e mi riprendeva per la collottola mentre volteggiavo felice e mi poggiava delicatamente sul pavimento e poi faceva un risotto.

Si avvicinava il momento. Studiavo il manuale della fotocamera stagna a prova di Antartide che avevo acquistato per la perigliosa avventura, il funzionamento della lampada a led che perfora anche un carro armato a due chilometri di distanza, come diavolo si aprissero le due giacche tecniche che avevo acquistato e rimiravo estasiato i sacchi impermeabili che fanno piattaforma oceanica e che avevo ramazzato in quantità da tutti gli shipchandler di La Spezia e che - devo riconoscerlo - erano l'unica cosa il cui  azionamento era semplice.
Tra gli sguardi di compatimento di Francesca andavo accumulando montagne di roba: radio ad onde corte, radio a manovella in caso di fine di mondo civile, VHF portatili insommergibili, coltelli bussole da rilevamento e libri sufficienti ad uccidere una persona. Normale, si intende. Li elenco perché il lettore può rendersi conto direttamente, senza che glieli dica io, di quanta perversione sia capace un ultrasessantenne molto malato convinto di essere un diciottenne con tutta la vita davanti e con ubbie da letterato.
Sono un liberale? Saggi di John Maynard Keynes.
Tutti i romanzi di Fitzgerald.
Uno dei volumi della storia d'Italia di Montanelli.
La meteo en mediterrané di un gruppo di meteorologi di Meteo France
60 partite da ricordare di Fisher
I problemi della filosofia di Bertrand Russell
Il corsaro nero di Salgari
E poi un libro sull'uso del sestante, portolani, libri sui nodi, manuali di rotta, tra cui il Mancini, riviste, i supplementi culturali dei principali giornali e una penna USB con dentro manuali e testi di sociologia della comunicazione.
Fu inappellabile la sentenza che emise Francesca: niente libri di scacchi perché mi sarei dovuto portare la scacchiera e niente filosofia perché il mio cervello temeva con qualche ragione potesse andare definitamente in tilt.
Dario si divertiva un mondo a mantenermi eccitato: corsi il serio rischio di acquistare un Epirb e un telefono satellitare, utile nel caso i venti ci trascinassero in un punto del Mediterraneo non coperto dalla rete o in caso di assalto dei pirati. Rinunciai alle armi da distribuire all'equipaggio molto a malincuore.
"Eccoci" disse Dario, maledettamente puntuale, e finalmente partimmo e io non potevo acquistare più nulla ma solo assistere desolato allo scarico completo di quello che avevo diligentemente (così pensavo) già stivato sulla Land Rover e alla sua sistemazione da parte di una implacabile Francesca. E sbarcati a Olbia dopo essere partiti da Piombino ci troviamo a Cannigione alle nove di sera e io salgo per la prima volta su una barca talmente lunga e larga da lasciare sgomenti, dotata di una ruota così grande che sembrava quella del famoso dipinto in cui Teghetoff dirige dalla sua corazzata la sistematica triturazione della flotta italiana a Lissa.
Lo so, la metto giù leggera e ironicamente e per fare sorridere - di me innanzitutto- i lettori di questo breve resoconto, ma sapevo che il dramma era in agguato e poteva esigere ad ogni momento i suoi crediti imprescrittibili. Tanto vale dirlo subito, senza rispettare l'ordine rigoroso di un giornale di bordo che non sono mai stato capace di compilare decentemente. Il primo problema, provocato da me come è naturale, faceva parte di quelli eroicamente messi in conto da Dario e per cui era attrezzato: mi ammalo. O meglio, una crisi improvvisa mi porta un febbrone che mi stende tra gli sguardi preoccupati dell'equipaggio.
" Sono i pomodori" disse Francesca. Francesca è convinta che i pomodori siano contro natura e che per i malati di fegato siano pericolosissimi.
" Fanno male per gli acidi urici" rimarcò garbatamente Mavi e tutti mi guardarono scuotendo la testa tristemente. Ora, con i problemi che ho io, l'acido urico non era mai stato menzionato come un fattore di rischio specifico, ed un brivido mi colse al pensiero che ogni volta che è stato preso in considerazione un singolo elemento si scopre che va tenuto sotto controllo e contrastato. Non  è lontano, lo so, il momento in cui mi diranno compunti che non posso mangiare più nulla ed io morirò di fame invece che per colpa di un fegato marcio.
Sta di fatto che tutto il 27 agosto rimango bloccato in cuccetta. Gli dei benevoli per fortuna fanno coincidere  il giorno con del cattivo tempo che comunque ci avrebbe tenuto in banchina.
Il secondo problema si insinua invece subdolamente al termine di una bellissima giornata di mare, il 30, quando abbiamo già da qualche giorno ripreso ad uscire, riuscendo anche, il 28, giorno in cui il tempo ricomincia a ristabilirsi ed io emergo dal letargo indotto dalla febbre, e i miei piedi riassumono forma umana da salsicciotti che erano, a fare una gita nell'interno, superando Tempio Pausania, visitando lungo la strada un insediamento dell'alto Medioevo con i resti di un castello in un bosco ombroso in cui massi di granito paiono spuntare dal terreno all'improvviso, simili a sculture aliene, e poi fermandoci a cercare un gruppo di costruzioni nuragiche di cui troviamo solo la capanna delle riunioni, e all'improvviso i contrafforti di una montagna si stagliano davanti a noi, e saliamo sino a mille metri e tratteniamo il fiato davanti al panorama al tramonto, in alto, in alto, sulla sommità dei monti della Limbara. E come talvolta felicemente accade si rinuncia al programma e si gode dell'imprevisto.
La Land non è felice, è vero, perché non siamo riusciti a mettere alla prova le sue doti da fuoristradista con il percorso di 24 chilometri tra boschi e sterpaglie e massi e cinghiali infuriati che Dario aveva studiato, ma la compensiamo con uno sterratino e molte blandizie e promesse.
Ma torniamo al 30. Decidemmo di evitare le Bocche e di puntare verso la Costa Smeralda, per arrivare a Tavolara, e tutto fu splendido: partenza alle 11 a motore e poi motore più Genova appena messo il naso fuori Capo 3 Monti. Sfilammo lungo la triste ostensione di lusso e povertà di spirito e miseria intellettuale di Porto Cervo e dei suoi yacht consolandoci ammirando la scabra e rugosa aridità di isole come Mortorio e Mortoriotto, i cui nomi richiamano un' altra Sardegna, priva di umani vocianti e rombanti su ridicoli e pericolosi motoscafi d'altura. Tavolara campeggiava come un torrione inespugnabile, una immane roccia scagliata da un Dio furente che forse sapeva che sarebbero arrivati in un futuro lontano ma prossimo, troppo, Berlusconi, Briatore, Lele Mora e i tristi accoliti e ammiratori e le cortigiane.
Alle 14 e 50 eravamo alla fonda a Punta Pietra. Davanti Tavolara ergeva il suo profilo arcigno,in una cuspide di rocce a strapiombo. Io sentii ancora una volta coronato il sogno di una vita e preso il via il mio cervello cominciò a figurarsi gli stessi posti nei mesi,lunghi, in cui i turisti volano agli insediamenti di origine in stormi compatti, mentre io di baia in baia, solitario e bastevole del poco avrei errato tra le isole. Mi fermai quando per primo mi resi conto che questa era effettivamente un pò grossa e che lontano più di 100 metri da un supermercato francamente non potrei sopravvivere.
Dopo circa un'ora ripartimmo mettendo la prua a nord con un vento che andava rinfrescando, stabile sui trenta nodi e davanti a Porto Cervo, tanto per far vedere cosa è capace di ammannire, così, su due piedi, soffiando con raffiche sino a 40 nodi. Tangos rispondeva da par suo senza scomporsi e così, giocando tra sbuffi e spinte, e ondate respinte con disdegno ci portò nello splendido golfo di Arzachena e infine a Cannigione davanti al nostro ormeggio in banchina.

Erano le otto e mezza. Il dramma covava maligno nella serata splendida e serena.
Non c'era più nessuno ad aiutarci dello staff, ma il vento era dolcemente calato e spingeva a favore, rendendo l'ormeggio facile, per quanto facile sia ormeggiare un battello lungo 14 metri. Dario fece una manovra inappuntabile e Mavi e Francesca raccolsero le cime di poppa che ci vennero lanciate mentre Dario correva a prua per prendere il cavo di ormeggio collegato alla trappa.
Tutto bene, dunque? Proprio no. Io, che a meno Dario mi incarichi espressamente resto di riserva, mi accorgo malauguratamente che la cima di poppa a sinistra assicurata provvisoriamente sulla bitta essendo per il momento non regolata è completamente lasca ed è sott'acqua, con il motore ancora acceso anche se in folle, pronto a dare indietro per contrastare il vento che ci spinge in fuori.
Dovete sapere che la manovra di ormeggio è un balletto complicato, che quando avviene di poppa si vena di sottili tinte isteriche per la difficoltà e la delicatezza. Su una barca lunga 14 metri e pesante parecchie tonnellate la cosa assume caratteristiche tali da rendere preoccupato e oltremodo nervoso il responsabile della manovra. Il quale ha in testa una procedura fatta di passi ed eventuali rimedi che sceglie nel repertorio delle manovre e tutti devono necessariamente rispettare alla lettera le indicazioni e gli ordini ricevuti: qualunque iniziativa personale correttiva in caso di errore è assolutamente vietata per evitare un groviglio inestricabile di altri passi e contropassi. Insomma solo il comandante è abilitato anche a sbagliare e a dare gli ordini necessari per rimediare.
E dunque iniziò il balletto con l'equipaggio che volteggiava con aria sapiente tra un punto e l'altro della barca, ed io osservata la cima in acqua e il motore acceso rividi le eliche impiccate e i motori che si spegnevano per colpa delle cime assassine e sull'ultima mia barca l'errore che avevo fatto io e il sommozzatore che avevo dovuto chiamare per rimediare, e decisi senza chiedere nulla a Dario impegnato a prua di tesare la cima e lui tornò in pozzetto proprio mentre per fare ciò io avevo liberato dalla bitta la cima e pensando che non avessimo ancora fissata saldamente come che sia il cavo mi abbaiò una serie di imprecazioni ed io ad allo stesso tono di voce tentai di rispondergli e lui ancora più incazzato perdette definitivamente la tramontana e se la prese con me e poi con il resto dell'equipaggio, assolutamente incolpevole.
Costernazione di tutti: io rinuncio per il momento ad ogni tentativo di spiegazione.
Ora un momento di riflessione è necessario per capire la tempesta ormonale e umorale scatenatasi improvvisa come la tempesta nel Guglielmo Tell. Dovete sapere che in questo equipaggio l'unica persona davvero normale è Mavi, un angelo che non meritiamo: io sono pazzo e immaturo e sempre più simile a un Don Chisciotte rincoglionito che stravede e scapisce, Francesca è permalosa come un gatto arrabbiato e ombrosa come un cavallo selvaggio e Dario sotto la patina di civilizzazione e gli sforzi di pazienza in genere riusciti resta un siciliano, in cui cova nascosta la fiamma di un taciturno ed enigmatico assassino. Mavi, al centro di questa costellazione, brilla come una promessa di pace e buon senso. E fortuna che non ci ha potuto accompagnare il  mio pugnace fox terrier perché morto.
"Vi faccio una proposta: andiamo stasera a mangiare al ristorante?"
"Perchè no? Se gli altri sono d'accordo..."
Avevo da tempo manifestato l'intenzione di offrire una cena al comandante e alla sua signora ma invece di aspettare l'ultima sera mi parve una buona idea anticipare per allentare un pò la tensione. Eravamo arrivati tardi e all'idea di apprestare una cena anche semplicissima in barca mi balenarono visioni di grugni selvaggi e indecorosi silenzi. La risposta arrivò dopo una lunga esitazione, uno sguardo bieco, e i puntini di sospensione alla fine erano sufficienti a riempire una pagina, ma alla lotta a chi è più paziente e diplomatico sono imbattibile e così andammo all'Hotel del Porto e dopo ottimi antipasti e una gallinella extrasize con le patate eravamo tutti più tranquilli, ma io continuavo tra me e me a rimuginare su quello che era accaduto e l'illuminazione mi arrivò all'improvviso come la Madonna quando decide di flesciare qualche sventurato (femmine in genere, chissà com'è): Dario era incazzato come un bufalo soprattutto perché il nostro battibecco ad alta voce era avvenuto alla presenza di gente in banchina e dato dunque l'impressione di una manovra confusa e pasticciata. Ogni tanto mi dimentico che per un siciliano fare una figuraccia è peggio che venire torturato dalla Cia..

Avrei dovuto fare l'ufficiale di rotta e tenere aggiornato il giornale di bordo: destinazioni, rotte, condizioni meteo, punto nave etc. ma tra il mio disordine congenito e il gps che ti situa in un battibaleno sulla carta con un margine di errore insignificante oggi ogni aura di ritualità negli arcani armeggi con bussole da rilevamento, compassi, squadrette nautiche, carte è scomparsa, e le connessioni Internet consentono quasi ovunque lungo le coste di seguire in tempo reale come evolve la situazione meteo. Addio spasmodici ascolti dei bollettini per radio, addio tuffi al cuore quando il canale 16 scandisce "securité, securité". E restavo imbambolato al tavolo da carteggio. E Dario beffardo mi guardava ogni tanto. E dunque i miei appunti si sono trasformati in una pappa indistinta di segni che dieci minuti dopo non riesco neppure a decifrare, redatti senza capo né coda. Ma come si conviene a un intellettuale io facevo lievitare nella mia testa impressioni, foto mentali (quelle vere facevano schifo: ho dimenticato di dire che avevo portato con noi materiale sufficiente ad allestire uno studio di posa) di giornate indimenticabili, e nonostante la debolezza e l'abilità di una tartaruga ubriaca mi riconciliavo col mare, riacquistavo il piede marino, constatavo con soddisfazione che il mal di mare era sempre una roba che non mi riguardava anche se infilato dopo pranzo sottocoperta in un gavone puzzolente a stomaco pieno, e soprattutto imparavo da Dario come si conduce una barca grande e impegnativa, anche se il suo baffetto vibratile mi ingiungeva ammonitorio di non fare nulla, di non toccare nulla, a meno che non me lo chiedesse lui.
Direte che una persona normale, che comunque ha fatto esperienze di navigazione leggera per decenni, deve soffrire per forza a tali limitazioni: se pensate così non avete capito nulla. I poteri assoluti dello skipper sono cosa buona e santa, sono il fondamento di quella minuscola società che si forma per mutuo consenso e che sino a che non si scioglie ricade sotto il potere assoluto e insindacabile del capitano, revocabile solo con l'ammutinamento e l'assassinio. I teorici del potere monarchico ammettevano la deposizione del tiranno. Il capitano Bligh può essere abbandonato su una scialuppa in mezzo all'oceano, Carlo Stuart può essere decollato, Dario ogni tanto lo avrei visto volentieri appeso per i piedi in cima d'albero ma la verità è che in navigazione la responsabilità totale di uno solo allevia gli altri, li libera da ansie paure e insicurezze ed io sentivo la mia testa leggera più del solito, e le mie fantasie galoppavano festose nelle praterie del verosimile senza il fastidio di doversi misurare col principio di realtà, e insomma godevo a godere.
Persino Francesca cui ogni imposizione, ordine, comando provoca l'immediata trasformazione in una tigre dai denti a sciabola si sottoponeva alla dura disciplina senza protestare, anche se lo sforzo titanico implicava di default un malumore selettivo, concentrato in una serie di dardi che venivano scagliati capricciosamente indovinate contro chi.
"Tsk, tsk" articolava dopo avermi trasformato in un dolente San Sebastiano, e guardava i miei piedi con disgusto, tanto per farmi sentire uno dei mostri di Freaks.
"Hai visto Mavi come si sono gonfiati?" rincarava con ferocia, e la Santa assentiva paziente e mi guardava con compatimento.

Ma a parte queste sotterranee dinamiche quasi tutti i giorni si aprivano su una luce incantevole, il vento si alzava, e noi con lui ma più tardi, e si usciva e si faceva vela e poi bagni voluttuosi e le donne si alternavano alle manovre con impegno e crescente perizia e le sere erano deliziose a cenare in quadrato e a chiaccherare stanchi e rilassati se non fosse per gli occasionali soprassalti della belva, semplici ruggitini però, tanto per schiarirsi le fauci.
Torno dopo un giro tortuoso al punto da cui ero partito: il giornale di bordo, la memoria delle cose accadute.
Siamo stanchi, è sera tardi, siamo arrivati a Cannigione, in fondo al golfo di Arzachena,è il 21 e io vedo il Grand Soleil 46 per la prima volta e ci salgo timoroso: è la prima notte e tutto mi sembra smisuratamente grande. Cenammo indolenti in una specie di pub sulla via principale che affaccia sul porto.
Quella notte sognai di essere su Galadriel, la mia prima barca, uno Jouet 22 che mi pareva grande e la quintessenza del lusso nautico e che rispetto al Grand Soleil su cui ero faceva la figura di un insetto. Ma era la prima barca: ed eravamo con Sergio Bertolucci, il mio socio di allora, nel golfo del Messico, ed io nel sogno mi svegliavo ed andavamo col pilota automatico di notte a vele spiegate e intorno a noi c'erano molte altre barche e noi che puntavamo allegri e spediti contro degli scogli. Io prendevo il timone e correggevo la rotta e poi di nuovo a dormire ma su tutto il lato di dritta, dove era la mia cuccetta, le luci avevano smesso di funzionare e mentre cercavo di capire cosa era successo avevamo spiaggiato e continuavamo ad andare lisci come l'olio sulla renna gialla nel primo mattino, e poi ce ne andavamo in paese -non c'era la mia prima moglie ma Francesca, e Sergio-, un paese pieno di vita e colorato e in un bar uno pieno di tatuaggi in un gruppo di italiani (non è necessario sognare per trovarli dappertutto) attacca discorso grugnendo da dove venite? e la risposta deve essere stata  talmente difficile che mi si srotola nel cervello rapidissima la visione di tutti i posti da cui provenivo prima dopo adesso e mi sveglio.
Faccio sempre sogni di barca in barca. E di viaggio in viaggio e così via, in una specie di gioco con la realtà che ho appena vissuto. O forse è il contrario, quelli sono ricordi, e sto sognando adesso. Il vescovo Berkeley sarebbe orgoglioso di trovare uno picchiatello come me per scambiare due chiacchere su realtà, percezione, sogno e illusione. E comunque Galadriel in Messico non c'è mai stata e oltre l'Elba neppure ed è affondata malinconicamente (ogni tanto penso che si è suicidata) per una mareggiata, all'ormeggio a Le Grazie, però con la bandiera al vento, che custodisco gelosamente.
Del 28 e del 30 ho già detto. Ma la prima giornata, il 22, è quella che marca l'inizio dell'avventura e che al di là di prefigurazioni immagini mentali aspettative mi conferma nella luce gloriosa del primo mattino che il mondo è indicibilmente bello e che la zona delle Bocche e il suo dedalo di isole scogli baie e ridossi richiedono un sacrificio agli dei: e depongo così sull'ara ogni altro pensiero, mi libero anche solo del ricordo delle cose da fare, delle persone da contattare, delle case da gestire, del giardino da innaffiare, allontano con un calcio la realtà della mia vita, mi riempio la testa di quel nulla luminoso e profumato e così, predisposto all'eterno, mi appresto a rinascere.
Esagero, naturalmente, la società ha comunque mille modi, alcuni subdoli, per far valere le sue pretese: e così dobbiamo fare cambusa e decidere insieme su dove andare nel pomeriggio, e fare acqua e controllare la barca, e le sirene dell'economia di mercato non appena transito nella via principale son lì a flautarmi inviti irresistibili ed io come Ulisse cerco di tapparmi le orecchie.
Scopro subito che non ho tappi e che quello è davvero un mare periglioso: per quella volta mi trattengono i compagni,tra divertiti e impietositi.
E, lo confesso: un filo resta, a legarmi tenacemente con   la banalità di quei maneggi che si chiamano politica. Ogni giorno, come un drogato in astinenza, erro per le vie alla ricerca di giornali. Ebbene sì: due, tre, quattro giornali, e riviste, le più improbabili, con l'arcigna edicolante di Cannigione che alla fine mi dispensa sorrisi beati...

Dunque, primo giorno: e fatta cambusa e controllato tutto usciamo per un bagno e arriviamo a Caprera e diamo fondo a Cala Portese. Il granito è caldo e colore del sole che si avvia al tramonto, ma è ancora presto e come facevo una volta mi tuffo dalla barca e l'acqua è salatissima, fresca, e tutto intorno un paradiso e, sì, lo ridico, mi pare di rinascere. Le nostre mogli si stendono voluttuose a prua e cominciano a fare provvista di sole come gli scoiattoli di noci per l'inverno.
Attendo che il comandante decida di spiegare le vele: per il momento, visto il poco tempo, si va a motore.
Il 23 decidiamo di andare all'Asinara, diventata Parco nazionale e da qualche anno visitabile anche se, per fortuna,con molte limitazioni. La traversata è lunga e partiamo alle 10 e mezza. All'inizio si va a motore, che senza sforzo, con un borbottio sommesso, ci fa fare 6 nodi e mezzo. La rotta è per NNE e punta verso l'isola di Santo Stefano, da cui procederemo verso Est. Alle 11 siamo al traverso di Capo d'Orso e la luce sfavorevole impedisce di fare belle foto della gigantesca figura che dà il nome al capo. Superiamo Punta Sardegna e Punta Marmorata e verso le 14 in acque libere prendiamo la rotta per 250 gradi che ci porterà a destinazione.
Io prendo confidenza con gli strumenti e soprattutto con le mappe e con la frastagliata geografia e mi godo i tanti nomi di isole, scogli secche e baie che adesso posso situare sulla carta e vedere se mi affaccio in pozzetto. Mi perdo in fantasie e sogni e la barca va, ancora a motore, e tutto è pace e in vista dell'Asinara i delfini ci accompagnano e ci salutano.
Dario chiede per telefono alla direzione del parco una boa dove ormeggiarsi (non è possibile usare l'ancora)e invece che alla grande cala di ingresso, la Reale, ci mandano ad una baietta dietro punta Trabuccato, sempre sul lato dell'isola che guarda verso oriente, l'unico dotato di approdi e ridossi.
Arriviamo alle 18 e 40 e prendiamo la boa e ci prepariamo per la notte e un miracolo si verifica, questa volta davvero, e non solo nella mia fantasia: una mano pietosa ci toglie dal mondo e ci depone su un altro pianeta, interrompendo le connessioni per i telefoni e i computer, lasciandoci soli in un silenzio smisurato, e la notte svolgendo su di noi un cielo stellato mai visto, con le stelle come punte di aghi brucianti nel nero di un buio pauroso, e Mavi e Francesca vedono una stella cadente che improvvisamente screzia quel nero: io resto in silenzio, con la testa finalmente vuota, quasi libero, intimorito e incredulo. Certo felice.
Dario, anche lui parla poco, forse memore di notti così splendenti ed oscure viste in altre vite, nella sua Sicilia.
Io in genere mi alzo presto, prima di tutti, ma la mattina del 24 il comandante è già in pozzetto e mi racconta che nelle prime luci dell'alba ha visto non solo i prevedibili assembramenti di capre e di asini attraversare la baia, ma una fila di cinghiali che forse facevano jogging e si muovevano a ritmo perfetto: il primo si fermava ogni tanto di colpo e tutti gli altri, senza il minimo ritardo, facevano altrettanto. Li immaginavo, al suo racconto, come ballerini che fanno figure di danza cinghialesca: stop, zampa destra sollevata, e tutti gli altri lo stesso, e poi via caracollando e stop, zampa sinistra, e così via.
Colazione, bagno, finalmente prima veleggiata con poco vento, e cambio di ormeggio, in una baia vicina, sempre alla boa. Per le due notti paghiamo circa 30 euro agli addetti che ci accostano con un gommone e ci lasciano una guida del Parco.
Dario telefona, ogni tanto la linea funziona, alla cooperativa che gestisce i percorsi guidati e il primo pomeriggio, puntuale, un Defender 110 ci viene a prelevare sulla spiaggia cui arriviamo con il tender. La nostra guida si chiama Fabrizio e pare competente e paziente (dote essenziale, visti i turisti predatori e ignoranti che capitano ogni tanto)e il giro ci porta dal paesino a diverse strutture carcerarie e poi attraverso la macchia sino ad un colle a 400 metri di altezza. Ci illustra le specie botaniche e animali, la storia dell'isola e del carcere, i meccanismi di gestione e recupero delle acque. Lepri, pernici, falchi: non riusciamo ad avvistare mufloni, ma l'escursione è interessantissima.
Le cene in barca sono semplici e alla buona: nonostante la cucina sia quella di un appartamento evitiamo di perderci in preparazioni, cotture, etc., tranne naturalmente il giorno in cui sono stato male, in cui un delizioso sugo ai frutti di mare, preparato da Dario colto da pietà per me che imploravo, ha accompagnato degli spaghetti e si è fatto mangiare da loro, mentre io avevo la febbre a 39 e restavo in cuccetta.
Dovete sapere che da quando i medici mi hanno imposto una dieta che praticamente elimina tutto, tranne saltuarie e ragionevoli eccezioni (che comunque non riguardano i fritti, i grassi, il burro, il maiale etc. E naturalmente vino ed alcolici) non faccio che pensare a come sono buone le cose che non posso mangiare, e così a tavola pur  convincendo gli altri a non limitarsi creo una leggera tensione che Mavi cerca di smorzare con dolcezza, Dario con autorevolezza e Francesca sbrigativamente.
"Bhé, se vuoi morire, fai pure" mi dice, oppure: "Ti prendo una badante e fai quello che ti pare".
Quello della badante è un leitmotiv ricorrente tra noi e allieta simpaticamente i nostri amici, anche se ho avuto più volte l'impressione che il Comandante fosse ormai pronto a sbarcarci senza tanti complimenti o quanto meno a strozzarmi e abbandonarmi ai pesci.
Pasti semplici, dicevo. Mentre io tentavo di convincere gli altri che vivrei solo di insalata e pomodori e che se anche non fossi malato quella è la cosa che mangerei tra tutte, e intanto adocchiavo voglioso il salamino che Dario affettava, o il bicchiere da cui un vino bianco e gelato mi lanciava segni di invito, quel poco di raziocinio rimastomi mi costringeva ad ammettere che tutti, per non crearmi problemi, si erano limitati ad una dieta poco più ricca della mia, che lo stavano facendo per me, e che io ero effettivamente un pò stronzo.
Non sono mai stato bravo a mentire, e nonostante gli sforzi si notava che erano appunto sforzi, che mi sarei divorato un bue: c'è di bello che un pò di solidarietà maschile restava comunque attiva e ogni tanto, da vero amico, Dario mi faceva assaggiare punte infinitesime di qualcosa di vietato, concendendole come ad un cane affamato che seduto accanto al padrone lo guarda implorante con gli occhioni umidi. E mi lanciava un'ostia di salame, tra gli sguardi compunti di disapprovazione delle donne.

Ma torniamo al 25.
Si decise per Bonifacio. Un porto magico, a detta di tutti, nascosto e protetto da un fiordo lungo quasi un miglio. Io ero ansioso di vederlo e Dario e mavi, pur essendosi già stati, parevano contenti di tornarci.
La partenza avvenne prestissimo per le nostre abitudini e alle 7 e 10 avevamo già mollato gli ormeggi. Era necessario arrivare presto per trovare posto, visto il consueto affollamento. Il motore ci spingeva a oltre 7 nodi senza alcuna fatica, il tempo era bello, il vento maneggevole, la pressione dal momento del nostro arrivo non si era mossa. La rotta era per 62 gradi. Dopo circa un'ora avvistammo ancora delfini, un branco che volteggiava a lato della barca e ci accompagnò per almeno 10 minuti. Arrivammo dopo circa 40 miglia a Bonifacio alle 13 e 30, con le falesie chiare visibili già da tempo che ci guidavano come un faro nella notte.
Dario, chiamata sul VHF la Capitaneria, ci fece assegnare un posto tranquillo all'inizio del porto.
Bonifacio è una cittadina nata e cresciuta attorno a fortificazioni che da sempre la proteggono e al porto protetto da ogni vento e unico rifugio sicuro nelle Bocche. Traffici e commerci sulla punta meridionale della Corsica e controllo del passaggio tra la Corsica e la Sardegna, tutte funzioni che hanno dato un aspetto caratteristico alla città, ora un pò sfigurata dal turismo. Il ricordo della presenza della Legione Straniera, da non molti anni traferitasi, è presente dappertutto e garantisce un carattere francese ad un luogo che viceversa mantiene un fondo impescrutabile, con vie che richiamano i carrugi genovesi e l'architettura di impronta toscana.
Una passeggiata, salendo dal porto al paese con un orrido trenino per turisti (identico a quelli che si trovano a Lecce, come a Pisa, come a Parigi, e dunque inquietante come un replicante) ci portò sui bastioni e sulla visione dell'ampia baia sotto il castello, e della scala del Principe d'Aragona che precipita nel porto, e poi tra viuzze e qualche negozio di buon gusto sparsi tra i tanti dispender di paccottiglia per turisti.
Io, momentaneamente senza controllo, acquistai naturalmente una piccola vendetta corsa, coltelli affilatissimi per sbuzzare con agio i nemici, e l'album di Asterix in Corsica e mi sentii del tutto realizzato, e  poi sentito in barca il meteo che accennava ad una possibilità di pioggia mi convinsi che dovevo dotarmi di una giacca impermeabile. E per puro caso davanti alla banchina c'era uno shipchandler, con bei capi che mi guardavano dalla vetrina. Ed io, sventurato, risposi: come la monaca di Monza.
Il 26 si decise per il ritorno. Il tempo effettivamente prometteva un cambiamento anche prossimo, e dunque via alle 8 e un quarto del mattino. Già dopo mezz'ora issammo la randa con una mano, prudenza che non avremmo rimpianto. Dopo un'altra mezzora, alle nove e un quarto spiegammo il genova. Il mare era poco mosso, ma il vento si manteneva sui venti nodi stabili con raffiche sino ai trenta. Dirigemmo su Punta Marmorata. Tangos ci dava a tratti oltre 8 nodi di velocità con vele ridotte e messe a segno per una navigazione tranquilla e in poco tempo ci portò al passaggio tra Spargi e la Maddalena. Il vento rinforzava e superava quasi sempre i trenta nodi.
La giornata sempre bella ci indusse a tentare di dar fondo per un bagno nella rada di Mezzo Schifo, ad ovest di Palau, ma il vento eccessivo e il suo turbinare da tutte le direzioni rendevano difficoltosa la manovra costringendoci a rinunciare. Le rafiche ora superavano spesso i 40 nodi e solo arrivati all'ormeggio, nel pomeriggio ormai inoltrato, il vento cominciò a quietarsi.
Il 27 e il 28 era tempo decisamente brutto ed io ne approfittai come ho detto per ammalarmi di colpo in modo da non recare all'equipaggio turbamento e soprattutto, lo confesso, per non dare motivo al siciliano di fare il volto grifagno manovrando pericolosamente le sopracciglia. Furono tutti carini e pazienti, forse irretiti dal soave influsso di Mavi che con le sue alucce di angelo spargeva tranquillità e assopiva i violenti.
Dopo la gita nell'interno del 28, il 29 siamo pronti di nuovo ad uscire, e un pò a vela un pò a motore in tutto comodo arriviamo a Caprera e diamo fondo nella cala Garibaldi, non troppo affollata, e passiamo lì una giornata deliziosa.

Tralasciando il fosco 30 si arrivò al 31, ultimo giorno del mese. I foresti cominciano a svernare, noi ci prepariamo ad uscire dalla nostra comoda base. Il bel tempo pare ristabilito, la pressione è però risalita e annuncia il passaggio di un fronte caldo e l'approssimarsi di un nuovo cambiamento, come le carte in quota confermano. Si parte alle 11 e trenta con poco vento con la randa con una mano e il genova, ogni tanto smotorando. Passaggio a Budelli ma ancora troppa gente: dirigiamo su Santa Maria e diamo fondo alle tre meno dieci del pomeriggio a Cala Muro.
In genere a quell'ora io riemergo dalla cuccetta, dove mi rintano per un riposo pomeridiano che mi è divenuto necessario e che pare non alterare i delicati equilibri che si sono andati stabilendo e assestando. Sono sempre esitante tra il desiderio di dare una mano e la paura di essere di intralcio, e mi limito a fare le cose che mi dice Dario, che mi segue vigile e attento.
Alle 18 si riparte e dopo circa mezz'ora siamo all'ormeggio.
Il giorno successivo, 1 settembre, il tempo comincia a mostrare segni di cedimento ma il pomeriggio è sempre bello e ventoso e dunque si esce.
Francesca e Mavi ormai affiatate eseguono rapidamente e quasi automaticamente le manovre, io sono sempre più tra i piedi anche se ormai dopo quasi due settimane ho riacquistato se non la forza fisica la padronanza psicologica dell'imbarcazione della sua conduzione e dei miei muscoli, sollecitati nei posti più impensati.
Pace e tranquillità: e riesco a tenere lontane le cose da fare, a fare il vuoto nella testa, e se non fosse per quel bisogno residuo che mi spinge la mattina presto a prendere per gli altri paste e dolci che non degno di uno sguardo e a cercare giornali e notizie in modo nevrastenico potrei stare sempre in barca, senza uscire e fare nulla se non veleggiare, oziare, leggere i tanti libri che mi sono portato dietro.
Mi capita spesso di pensare che mai come in quest'anno di limitazioni crescenti e di malattia sono riuscito a fare vacanze e viaggi. Da Parigi all'Austria e adesso la Gallura in barca e in mezzo, tra un viaggio e l'altro, la campagna dove esercito con convinzione il mio ruolo di gentleman's farmer anche se mi mancano i cavalli e provvisoriamente anche i cani.
Dunque anche il primo settembre uscita e bagno a Cala Portese. Ne approfittiamo per rifare il pieno. Tangos consuma pochissimo ma comunque tra quarti di serbatoio sono pur sempre 128 litri.
Al ritorno ci siamo fatti furbi, e se il vento è eccessivo o sfavorevole per ormeggiare tranquillamente aspettiamo che si calmi, cosa che avviene sempre verso le sette di sera.
Si cena, stanchi, e come sempre le ragazze si mettono a giocare a carte, ed io e Francesca offriamo agli amici la solita gag delle medicine, in cui è previsto io faccia la figura del deficiente e Francesca minacci come al solito di affidarmi ad una badante. La malattia offre queste piccole soddisfazioni.
Il giorno dopo una sottile malinconia comincia a filtrare tra di noi: si avvicina la partenza ma le due ultime giornate sono animate dalla Perini Cup, una regata di barche a vela da sogno costruite dal cantiere per cui lavora Dario: mostri straordinari, tra cui spicca il Maltese Falcon, una nave di ottanta metri con tre alberi a vele quadre, in cui gli alberi ruotano e dai pennoni escono a comando le diverse vele, il tutto assistito da computer. Seguiamo la partenza e facciamo delle foto e benedico la pazza idea che ho avuto di trascinarmi dietro un obiettivo di 300 millimetri, pesante come un lanciarazzi. Quando sono passate e maestosamente si allontanano andiamo a fare il bagno a Liscia di Vacca, un altro di quei posti il cui nome, da solo, è capace di scagliarmi in orbita a immaginare avventure di mare.
Il 3 settembre è sabato. Partiamo alle dodici per Porto Cervo e assistiamo ad un'altra partenza e ad altre straordinarie evoluzioni della regata, il Maltese Falcon orienta le vele vicino a noi, e nel farlo intercetta ogni gradazione del bianco e del grigio sulle sue vele candide e sugli alberi splendenti, e a ogni cambiamento di rotta si ferma un attimo e poi, improvvisamente, si muove come se un soffio tutto suo lo spingesse, come se Eolo in persona lo spostasse di peso sull'azzurro del mare.
E' uno spettacolo indimenticabile.
Mavi e Dario festeggiano sempre il giorno in cui si sono sposati, e non dimenticano mai una data importante della loro storia insieme: io con loro mi sento sempre una bestia, spesso dimentico di anniversari, date importanti e simboliche e Francesca, dal temperamento non sentimentale ed anzi duro come quello di un guerriero, non mi viene in soccorso. Sovente coinvolgono gli amici e in quella occasione ci siamo noi: sarebbe il giorno successivo il loro anniversario, ma la cena che intendono offrirci ed offrirsi la anticipano alla sera prima, per poter domenica andare a dormire presto dopo aver sistemato tutto. Il traghetto partirà da Olbia alle 8 del mattino.

Lo Stazzu ci accoglie tra rovesci di pioggia, alla fine arrivata, tra olivastri mirto e cespugli odorosi da cui l'acqua improvvisa estrae profumi di macchia che ci  alitano tutto intorno.
Ci affrettiamo perciò ad entrare, bagnati come pulcini ed io per soprammercato ferito gravemente da un ombrello che si rifiutava di farsi prendere: le cicatrici di mille battaglie con spine di rosa, angoli feroci, punti di cucitrice, ombrelli fetenti disegnano ormai una splendida mappa sul mio corpo stanco.
Ma appena seduti dimentico della colluttazione con l'ombrello esprimo con semplice concentrata passione tutta la mia voglia di esplorare le tante vie di godimento che il menù ci mostra: in questi casi la salivazione aumenta a dismisura e una vena poetica si desta rendendomi gastronomicamente lirico ma mi limito con uno sforzo erculeo e Francesca pare soddisfatta di come mi comporto, ma straparlo di cibo, preparazioni, ricette e gli altri mi guardano con un'ombra di riprovazione.
Un antipasto leggero e gustoso mi fa finalmente tacere. Quando è il momento dei secondi Dario interviene per offrirmi consigli e sottili analisi di quello che, non posso non riconoscerlo, è un atteggiamento un pò da coatto.
"Vedi Luigi, tu ti concentri troppo sul cibo e su quello che non puoi mangiare. Devi darti una misura e accontentarti di quello che hai" fa Dario benevolo.
"Hai ragione, ma dovresti capire..." provo io a dire.
"Mangiare poco ti fa stare meglio" e gli altri assentiscono con cenni del capo "E poi il controllo è tutto" aggiunge Dario ed io non credo ai miei occhi quando non una porzione di porcetto (a questo ero preparato) si fa mettere nel piatto, ma due insieme in una sperlonga che trabocca di carni tenere come burro che lui aggredisce con energia,divorando con attenzione e scrupolo tutto, proprio tutto, e dispensandomi altri consigli di vita tra un boccone e l'altro, ed io mi sento  un affamato che occhieggia la pelle croccante, le piccole ossa spolpate con metodo, sentendo un profumo da campi elisii, mentre bofonchio che ha proprio ragione.
Insomma la cena è squisita e ad ogni buon conto anche io, per quanto mi è concesso, ne approfitto. Alla fine siamo tutti in pace e si chiacchera delle relazioni che ognuno di noi ha stretto nel tempo con l'altro o l'altra, degli anniversari, dei nostri matrimoni.
Francesca ama la tempesta e la lotta, da vero maschio mancato in un corpo e in un'anima da femmina altrettano vera, e l'atmosfera che rischia di diventare melensa decide di movimentarla con una serie di osservazioni che colgono il siciliano davanti a lei in contropiede. La discussione si fa ricca e articolata, poi serrata, infine si riduce ad un corpo a corpo tra lei e Dario che comincia a fumare come il suo vulcano, mentre la Santa sparge olio intorno alla barca per quietare le acque, ed io ascolto un pò divertito, un pò incazzato.
Alla fine i coltelli vengono riposti nei foderi, e i due porcetti calmano Dario, e Francesca dopo aver giocato a chi ce l'ha più duro lascia la contesa con suprema indifferenza.
Una cena indimenticabile anche quella, per il cibo, il luogo e l'appassionante controversia che ha assunto a un certo punto come tema di confronto la mia modesta persona, tapino che sono...
Il giorno dopo la realtà si incarica di richiamarci tutti a doveri impegni e problemi, che comunque ogni tanto avevano tentato, senza troppo successo, di aprirsi un varco anche nei giorni precedenti, ad esempio con la mamma di Dario che improvvisamente decide di stare male (lei, come anche mia madre un tempo, è in grado di farsi venire i mali più incredibili per alimentare il senso di colpa nei figli) e di finire in ospedale dove ovviamente provano ad ucciderla oppure con la straordinaria storia delle tasse che devo pagare in Grecia pena una multa salatissima ma che non posso pagare perchè l'Agenzia  delle Entrate greca non mi comunica il codice che devo citare.

Domenica, come previsto, lavoro e preparazione della Land che si stupisce di caricare più roba di quella che avevamo portato, e poi silenzio ma questa volta silenzio solo dell'anima, perchè una brigata di britanni cafoni peggio di un romano acquisito (i veri romani de Roma sono rimasti pochissimi e sono squisiti ed eleganti plebei)pensa bene di ululare alla notte, di ruttare risate sguaiate, di emettere borborigmi e cachinni ad altissimo volume, impedendoci di dormire e profanando la calma e la pace del luogo.    Ancora con gli occhi cisposi e la mente rivolta a pensieri di strage, la mattina successiva partenza all'alba, ognuno perso in sé stesso . Dario non mi ha espunto dall'albo degli amici, ed io non posso dire banalmente che si sono trattati di quindici giorni straordinari: devo dire che se essere malati permette alla buona sorte e ai buoni compagni di offrirmi occasioni del genere, tanto vale restare malati. Magari aggravandosi anche un poco, non troppo.

domenica 1 novembre 2009

JOSEPH BEN MATTHIAS

Joseph Ben Matthias si sporse dalle mura e osservò il piccolo drappello di cavalieri che li teneva sotto osservazione e improvvisamente si accorse dell’ordine perfetto con cui si erano disposti, dei colori uniformi delle vesti che indossavano, dei piccoli scudi tutti uguali appesi alle selle.
Tutti uguali, tutto in ordine, tutti schierati in fila senza che nessuno comandasse o gridasse: era questo il segreto di Roma? L’ordine, l’efficienza, l’organizzazione?
Buffo, pensò, non mi aveva tanto colpito la potenza di Roma quando vi ero arrivato ed ero stato presentato a Nerone. La magnificenza dei palazzi, l’enormità della città, una corte imperiale al cui confronto quella di Agrippa pareva una cosa misera, tutto mi aveva colpito ma non intimorito. Ed ora pochi cavalieri, un particolare insignificante di quella macchina di potere e dominio, mi fanno esitare…
Si sfilò la spada dal collo, ne strinse l’elsa, provò a ricordare quello che aveva provato quando aveva deciso di unirsi agli insorti, di ritagliarsi un ruolo di comando in una guerra che gli era parsa gloriosa. Gloriosa e vittoriosa. In fondo chi avrebbe pensato che per pochi giudei in una remota provincia ci si sarebbe tanto dati da fare? Un compromesso, una indipendenza formale sotto il protettorato di Roma: un accordo, come non trovarlo?
Il trambusto che saliva dal vicolo che portava alla postazione sulle mura fu improvvisamente presente alla sua mente come un monito beffardo: eccoli lì, si disse, a litigare tra loro, a disputare di strategia, a contestare i pochi che sanno di armi e battaglie e che provano a dare ordini.
La piana lungo le sponde del lago era una vista magnifica, e noci fichi e palme punteggiavano quella cortina verde che si parava ai suoi occhi e gli ricordava imperiosa una pace operosa. In fondo perché non trovarla e cullarla sotto lo scudo di Roma come avevano fatto tutti i popoli che conosceva? In quella distesa silente piante tanto diverse prosperavano insieme come nell’impero da cui aveva voluto, lui assieme a tanti altri, prendere orgogliosamente le distanze.
Si riscosse e sospirando guardò gli armati schierati lungo quel tratto di mura: ognuno abbigliato in modo diverso, alcuni con protezioni raffazzonate, qualcuno con pezzi di armatura sottratti chissà dove, tutti con spade archi daghe giavellotti distribuiti senza senso. Pastori, pescatori, mercanti: ecco cosa erano e il febbrile entusiasmo con cui brandivano le armi insolentendo e minacciando gli imperturbabili cavalieri, laggiù, fermi in quell’ordine gelido e tranquillo, gli fece tenerezza e rabbia.
Magdala brulicava di guerrieri improvvisati, di geniali strateghi, di profeti vaticinanti, di popolani indifferenti al delirio degli zeloti e pronti a scendere ad ogni compromesso. Una turba, non un popolo. Una voglia non un progetto li guidava. Neppure un’ombra di strategia e di coordinamento tra città che si odiavano.
E mentre ripensava alle astuzie di cui aveva dato prova a Tiberiade, e non sentiva più l’usato orgoglio, si accorse di guardare con stupefazione le gambe di un ragazzo avvolte da schinieri, come un eroe omerico.
Fu quello il colpo che lo trafisse e lo indusse a lasciare risolutamente la città condannata: da quale tempio, da quale passato, da quale idea, erano emersi quegli schinieri? Per fronteggiare soldati di professione, macchine da assedio, tattiche di combattimento messe a punto in secoli di esperienza, sistemi di trasporto e di vettovagliamento che macinavano centinaia di miglia come niente, con quale coraggio un ragazzo poteva ricorrere a degli schinieri?
Non passarono molti giorni da quella fuga mascherata da ragioni di guerra: Vespasiano si era accampato e fortificato con tutta la perizia e la prudenza che aveva fatto la gloria delle legioni, e suo figlio Tito non tardò ad effettuare una dimostrazione in armi sotto le mura con seicento cavalieri.
A migliaia uscirono da Magdala e si schierarono a caso di fronte alla città, mentre ancora fervevano, tra i capi o tra coloro che si credevano tali, le discussioni sulla strategia da adottare. Erano tanti contro pochi, erano troppi, erano condannati. Ricacciati indietro e fatti a pezzi si rifugiarono verso luoghi che non erano stati previsti, predisposti, organizzati al bisogno, chi verso la città, chi verso il lago, e solo con grande fatica riuscirono grazie al numero a trovare requie.
E mentre nella città rialzavano la testa i tanti che volevano arrendersi, e il confronto si faceva più aspro e si poneva mano alle armi, Tito individuò con occhio sicuro il punto in cui gli sforzi di Joseph ben Matthias, comandante ben intenzionato e incapace, intellettuale inutilmente prestato alle minuzie e alle sottigliezze della guerra, non erano riusciti a completare la missione che si era sconsideratamente dato di fortificare la città. Dalla parte del lago le mura erano incomplete perché tutti avevano considerato impossibile un attacco in forze da quel lato. E come a Masala, dove di lì a pochi anni si sarebbe dimostrato che non esiste luogo imprendibile per un popolo di ingegneri edificatori e muratori, così, con tanta maggiore facilità, a Magdala si parò di fronte agli attaccanti un mezzo per forzare l’ingresso.
Oltre seimila furono i morti: e molti furono coloro che si illusero, salendo sulle barche che erano pronte, di essere scampati ad un esercito che non aveva con sé alcuna imbarcazione. Con ordine e imprevista perizia i genieri si diedero a costruire zattere su cui presero posto i soldati e da quelle piattaforme, stabili e sicure, massacrarono con metodo e professionalità gli improvvisati guerrieri, che nel momento supremo, di fronte alla morte, tornarono per un attimo contadini pastori pescatori e mercanti.
Joseph ben Matthias, sopraffatto dal rimorso, dimenticò pian piano di essere stato un generale inetto. Riuscì ad evitare la morte per mano del nemico e il suicidio cui alla fine si abbandonarono gli ultimi scampati grazie alla sua esortazione a non togliersi da sé la vita, ma a farsi uccidere ognuno da un compagno. Rimase ultimo e vivo. E perdonato divenne, da allora, Flavio Giuseppe.
Quanto agli altri, agli innumeri altri, senza nome, non fu per il coraggio dimostrato, che non vennero dimenticati, ma per la follia di porsi contro Roma senza una strategia militare, senza preparazione, senza alleati. Fu il pressappochismo e l’orgogliosa incapacità di fare della guerra un mestiere a consegnarli alla storia e alla nostra stupita memoria.
inedito

MORTE DI RUPERT BROOKE

Rupert Brooke morì in un giorno di aprile del 1915, a ventotto anni, nel silenzio della baia di Tris Bukes, mentre il convoglio di cui faceva parte la sua nave era diretto verso l'insospettabile e inatteso macello di Gallipoli: inglesi e francesi avrebbero scoperto Mustafa Kemal e la rinascita turca e Churchill la sua prima sconfitta. Un destino derisorio l'aveva deposto nell'unica isola in cui un eroe omerico aveva tentato invano di sottrarsi alla guerra mentre lui ci sarebbe riuscito morendovi.
La nave ospedale aveva dato fondo in quell'ancoraggio tranquillo la sera prima, e Skiros era apparsa a lungo sfolgorante con le sue case bianche aggrappate al cono perfetto della montagna, illuminata con violenza dagli ultimi barbagli di sole mentre in basso la notte avanzava come un manto di velluto che ricoprisse in un silenzio stupefatto la terra.
Quello era l'Egeo, quella notte era quella cantata da Omero e fu l'ultima che vide prima dell'incoscienza e del riposo tra le ombre. Dimenticò insieme i mari del sud in cui aveva viaggiato, e la sua Taatamata, dimenticò di aver pensato di restare lì per sempre, come Stevenson che aveva invidiato e detestato, dimenticò i suoi vagabondaggi attraverso una Francia e una Germania ancora in pace, dimenticò il King's College e i suoi compagni e le serate alla Fabian Society e Ka Cox.
Dimenticò tutto per concentrarsi su quella baia immortale cui non sapeva di essere destinato, sulla notte che scivolava sulle rena bianca e così incredibilemte fine. Come un vaporoso tappeto tra il nero del mare e il verde cupo della macchia profumata di timo: e su quella rena vide le orme di piccoli piedi, e udì lo scalpiccio di fanciulle che correvano, e le loro grida di gioia a giocare, rincorrersi e afferrare Achille cui nel turbinio di quel girotondo si sollevavano le vesti femminili.
Quelle cosce muscolose, quei genitali intravisti: non era stato meglio amare gli uomini? Le donne lo avevano solo fatto soffrire, lo avevano deluso, abbandonato. Fece in tempo a cogliere in quel silenzio che circondava la nave, ora che si era quetata ogni manovra, la voce di William Browne che gli recitava i suoi versi:
If I should die, think only this of me:
That there's some corner of a foreign field
That is for ever England. There shall be
In that rich earth a richer dust concealed...

A Skiros, in una piazzetta affacciata sul mare, in cima al paese, la statua di un giovane guarda verso la distesa di luce che si apre tutto intorno: Magazià e la spiaggia subito sotto e più oltre, a perdivista, il blu inebriante attraverso cui traspare nero il profilo accennato delle altre isole.
E' Rupert Brooke, bello come un Apollo, il poeta più generoso d'Inghilterra, come avrebbe poi detto Yeats. Anelava a morire sul campo di battaglia ed era invano sopravvissuto alla ritirata dalle Fiandre, aveva molto amato, molto viaggiato e aveva già detto tutto nella poesia che aveva scritto l'anno prima, con cui inconsapevolmente aveva chiesto ciò che non voleva.

Era la poesia che la sera di quell'aprile gli stava sussurando Browne per aiutarlo ad intraprendere un troppo lungo viaggio. Lui era quel corpo inglese, e poco dopo lui sarebbe stato quella polvere così ricca. Come un eroe omerico la mattina dopo lo avrebbero bruciato su una pira di legno d'ulivo trasformando per sempre un angolo di Grecia, nella baia incantata di Tris Bukes, in un pezzo di Inghilterra.

Prima di morire, nella notte, avrebbe udito un grido di civetta e immaginato Atena che lo chiamava. Capì troppo tardi che gli dei talvolta esaudiscono i desideri dei poeti alla lettera.

inedito

lunedì 31 marzo 2008

EPITAFFI PER GIOVANI CANI

Cominciò tutto a Barletta. Il primo epitaffio apparve sulla 16 bis, vicino alla uscita per il quartiere 167. Sul guard-rail un cartello diceva: qui giace Pippo, onesto cane meticcio, abbandonato dalla famiglia Strisciuglio. Sino alla morte ha cercato Sara, la sua padrona. Accanto, ormai rinsecchito, il cadavere di un cane nero.
Su quel tratto di strada, tra Barletta e Bisceglie, si contano a decine i cadaveri di cani abbandonati, travolti dalle auto, lasciati a marcire sino in qualche caso ad impastarsi con l’asfalto, ombre finalmente placate di una Hiroshima domestica. Sono detti randagi, ma sono cercatori: si muovono in drappelli, guidati da un capo, in piccole fila ordinate, in cerca di cibo, di riparo, ma soprattutto di uomini e donne: solo quelli tra i tanti, tra i troppi, che gli appartengono. Dalla fila ogni tanto un muso si alza, il trotto rallenta e si ferma, e degli occhi in cui brilla per un attimo una domanda ti scrutano stanchi, poi rassegnati. Non sei tu, e lui è già lontano.
Il cartello fu portato via e sulla strada venne fatta pulizia a spese del Comune. Ne nacque un delicato caso burocratico, la strada era provinciale, l’iniziativa, tuonò la Gazzetta era lodevole ma improvvida, la Corte dei Conti sentito odore di danno erariale si precipitò come un avvoltoio sulla questione, la Procura mise da parte assassinii, furti e rapine e si concentrò sull’abuso di ufficio, pareri pro-veritate vennero chiesti a diversi legali che dovevano chi cambiare la macchina chi comprare un appartamento per l’orribile figlia, a Bisceglie intanto giudicarono inammissibile che Barletta avesse preso una tale iniziativa sul tratto di strada di loro pertinenza e Trani, Trani non si tirò indietro e se la prese con la Regione.
Frattanto i cani continuavano a morire, e se quelli portati via non poterono essere ridisposti dove la morte li aveva colti, in compenso le nuove vittime restarono dov’erano.
Nessuno si ricordò del cartello, sino a quando non ne comparve un altro, vicino ad uno splendido Labrador spappolato in territorio di Trani, sulla solita strada. Diceva: mi chiamavo Rex, Giacomo Tarantini mi ha lasciato su questa strada, non ho capito perché.
Questa volta sulla Gazzetta un cronista fece pubblicare un’intervista a Giacomo Tarantini, che negò risolutamente di aver abbandonato il cane, povera bestia, effettivamente suo: l’aveva cercato e cercato ma niente, non se ne era più saputo nulla. Il tema del randagismo venne di nuovo sollevato con forza, i sindaci furono chiamati in causa, l’ASL criticata rispose che i suoi compiti si limitavano alla cura e alla sterilizzazione, ma il “confinamento” e la custodia (questi i termini usati da un funzionario che forse sapeva come le SS nei territori dell’est avessero scandito con consumata sapienza le fasi di un loro progetto: ricerca, confinamento, custodia, sfruttamento, eliminazione) spettavano ad altri. Mentre le folate del vento d’aprile alzavano sulle strade teli di plastica abbandonati, cartoni e lacerti e brandelli di stoffe, frugando con delicatezza nei mucchi di spazzatura deposti ai bordi e alzando leggiadri mulinelli dai mucchi di immondizia, mentre le tegole di amianto adagiate dappertutto si sfarinavano con grazia, mentre i buchi sull’asfalto inghiottivano le auto sputando molle e sospensioni, i vigili urbani si misero in caccia di chi aveva sistemato il cartello, provvedendo alla denuncia alle autorità competenti, ignari delle parole “costo”, “benefici”, “opportunità” ma devoti alla Legge.
Varie associazioni animaliste vennero coinvolte, indagate e additate alla riprovazione dei cittadini per il fondato sospetto che quella carnevalata fosse opera loro. Dopo la scoperta in una gravina delle Murge dei cadaveri di oltre cento cani precipitati nel vuoto dal proprietario di un canile privato che aveva evidentemente compreso il senso riposto di tutti quei soldi che le istituzioni gli davano per risolvere il problema del randagismo la cosa prese improvvisamente un’altra piega: accanto ad ogni corpo comparve un cartello, questa volta in laminato plastico e con i caratteri fosforescenti che la notte improvvisamente ti colpivano come rasoiate sulla faccia. Asportarli non servì a nulla: ricomparivano come niente fosse, e la sorveglianza discreta delle forze dell’ordine, abbandonate ad Andria le indagini su omicidi rapine e attentati, non fu in grado di venire a capo dei misteriosi epitaffi, che ormai si moltiplicavano in tutto il nordbarese.
I cani comparivano in gruppi sempre più numerosi, ma composti e quasi assorti si guardavano attorno. Nei luoghi abituali di ritrovo aspettavano i benevoli esseri umani che sempre più numerosi li rifornivano di cibo e se non mancavano di esprimere gioia e riconoscenza lo facevano con quasi misurata degnazione.
Un giorno nella Cattedrale il prete all’apertura trovò tre piccoli bastardini seduti sul gradino del coro, lo sguardo rivolto all’altare, le code penzoloni allineate sul bordo a disegnare tre virgole talmente belle a vedersi che per un po’ restò a bocca aperta ad ammirare lo spettacolo prima di ricacciare un sorriso poco adatto al sacrilegio e cacciarli via in malo modo.
Sinceratosi di non aver lasciato aperta alcuna porta non ci pensò più sino al mattino seguente, in cui i cani erano diventati sette, grandi e muscolosi. Provò a dire qualcosa ma tacque allo sguardo del primo, di muto rimprovero, e a quello del secondo, di minaccia. Il terzo si limitò a fargli un sorriso balenando le zanne lunghe e bianchissime.
I cani adesso comparivano in luoghi dove non erano mai stati, in luoghi che erano vietati persino a quelli dotati di padrone. Alla Villa Comunale di Trani, in cui il custode godeva da tempo del privilegio di inibire l’accesso a cani al guinzaglio immancabilmente più educati e civili di lui, si presentarono in 12, lo circondarono con garbo e lo confinarono nel suo gabbiotto semplicemente facendogli ascoltare un loro concerto per ringhio e ansiti profondi, una specie di “om” ripetuto su tutte le frequenze.
La misura fu colma quando al palazzo Della Marra davanti al quadro di De Nittis che raffigura il pittore e la famiglia che fanno colazione si trovò un fox terrier in contemplazione, seduto sulle zampe posteriori, piantato sul pavimento lucido come un triangolo al cui vertice superiore tremavano i baffi, con l’aria di voler restare per sempre perduto a guardare. Altri cani trotterellavano tra una sala e l’altra con misurato disdegno degli umani che provavano a farli uscire.
La città precipitò per prima in un caos che in nulla si differenziava da quello consueto se non per lo scandalo di una presenza incomprensibile e per il dubbio che cominciava a prendere forma.
Mentre tutti si stracciavano le vesti e i capelli per il calo della produzione, per la disoccupazione, per il grande centro commerciale di Molfetta che faticava a vendere prodotti inutili costosi e persino dannosi per menti sature e disperate, la vista dei cani che avanzavano in schiere senza neppure il collare, senza aver bisogno di altro che di cibo e riparo, che giocavano e si accoppiavano allegramente, e che guardavano i loro padroni –quelli ancora tali e quelli che non avevano voluto più esserlo- con benevola attenzione ma da una distanza che pareva sempre più grande, sembrò ad alcuni –pochi all’inizio e poi sempre di più- non tanto un rimprovero quanto un avvertimento.
Nella superstiziosa Italia di santi e madonne unica consolazione per aver abdicato alla ragione e al governo di sé e degli altri, unico contrappeso al senso di inutilità e incapacità collettiva è la certezza che qualcuno stende su ciascuno di noi una mano amica e soccorritrice, e non mancano in Puglia slogan conseguenti, incitamenti al narcisismo e inviti a non pensare. “Dio ti ama” è uno di questi, ripetuto ormai come il claim di una marca di preservativi, formulato da disgraziati che ignorano quanto una simile affermazione deponga a sfavore dell’esistenza di un dio ovvero della sua intelligenza. Nei migliori il dubbio cresceva pensando che forse quel “ti” non si riferisse a loro.
Quando un cocker figlio di mille incroci per primo si accoccolò davanti all’oratorio annesso alla parrocchia di Santa Maria, dove quel cartello campeggiava orgoglioso, seguito poi da una folla muta di bastardi meticci cani di razza, orrendi, belli, di mille colori, tutti disposti in cerchio a fissare le parole scritte da un prete ingenuo, e quando dal silenzio calato tutto attorno proruppe infine un mugolio indistinto, e dai contenuti guaiti si formò un inno, la certezza della sapienza divina e della propria condanna furono improvvise definitive e forse liberatorie.

lunedì 4 febbraio 2008

DISTINZIONE A CHERASCO

Fu lunga l’attesa, lì nel freddo, mentre la sera si posava sul Borsalino sistemato con ordine sulla lastra di marmo, tra i due calici di vetro e ottone: parlava piano, con intenzione rotonda, pause, interiezioni, accenti interrogativi, ora qua, ora là, e non era un soliloquio ma proprio un colloquio, piano, sereno.
Ma lei non rispondeva, e Antonio Rocciolatto insisteva tranquillo, e la sera ormai padrona del cimitero trasse da quel fondo di nero, in basso, la figura prima indistinta poi come per magia già vicinissima, al suo fianco, del custode che lo invitava ad accomodarsi, a uscire, era già passato l’orario di chiusura.
Raccolse il cappello, sistemò i fiori, seguì l’uomo sino al grande cancello, si scusò affabile come sempre, salutò. Si chiedeva perché sua moglie non gli avesse risposto: sapeva bene che i morti non parlano ai vivi, gli era tutto chiaro, non aveva un temperamento mistico e non credeva a nessuna forma di magia. Aveva 73 anni e non era rimbambito. Ma con altrettanta pacifica sicurezza era acutamente consapevole di essere, lui, unico e insostituibile, diverso da ogni altro essere vivente, di essere nella sua assoluta normalità – e mediocrità, anche, aggiunse bonariamente tra sé- speciale e irriducibile a tutto il resto, insomma di avere per ciò stesso, come tutti del resto, diritto ad una distinzione, a qualcosa solo ed esclusivamente sua: e lui da tempo aveva chiesto che quell’unico diritto, quell’unica distinzione consistesse nella possibilità di continuare a parlare con la sua adorata compagna anche dopo la sua morte, la morte di lei, da tempo annunciata, da tempo prevista.
Le diceva ridendo, quando la malattia era ormai avanzata: “Stai tranquilla, non preoccuparti, ti farò compagnia anche dopo”, ed anche, facendo gli occhi cattivi: “Mi toccherà sopportarti anche dopo, accidenti…”, ed era tutto contento di quella distinzione, che sapeva di aver meritato per il suo amore, la sua dedizione, la sua rinuncia a tutto il resto.
Quel giorno –era il primo dopo il funerale che aveva dedicato a lei con calma, a tu per tu- rimase un po’ interdetto, ma si disse che ci voleva forse del tempo, e che i morti hanno l’eternità davanti e devono di nuovo abituarsi ai poveri tempi stretti dei viventi per parlare con loro.
Così, tornò più volte, povero Rocciolatto: divenne una presenza consueta, le sue visite ritmavano il tempo degli altri, dei visitatori distratti, e pure ignorando chi fossero Henry James e Gorge Stransom cominciò, come quest’ultimo aveva fatto dell’altare nella chiesa, a considerare quel giardino e quei vialetti come il verde e grigio sfondo di tutta la sua vita.
La sua pazienza non venne mai meno e quei colloqui senza risposta alcuna con la lastra su cui qualche lichene aveva cominciato a disegnare i segni di un alfabeto che gli restava ignoto erano diventati dal primo pomeriggio sino al buio della chiusura un particolare tra i tanti di una città di morti affollata di steli, statue, alberi e iscrizioni.
Un giorno capì e seduto su una panchina fumando pensò e ripensò a quanto era stato stupido a non arrivarci prima, e a come fare per rimediare, la mente ordinata e precisa già all’opera su alcune soluzioni possibili: quella distinzione invocata richiedeva da parte sua un’azione, come si preme un bottone per avviare una macchina, come si muove una mano per afferrare un bicchiere. Una azione semplice, ma che avrebbe richiesto discrezione, silenzio, segretezza.
La Macchina nacque dalle sue mani addestrate ad ogni lavoro e dal suo cervello. Il questore l’avrebbe poi definita “leonardesca”, ammirato come tutti dall’ingegnosità delle soluzioni meccaniche, dalla funzionalità del tutto, dalla semplicità geniale dei dispositivi.
Cherasco splendeva nella luce meridiana di un giorno di ottobre quando si presentò in anticipo recando alcuni strumenti che – spiegò al custode divenuto ormai suo amico- gli servivano per dare una sistemata intorno alla tomba, se, naturalmente non esisteva qualche disposizione di regolamento contraria, aggiunse con un fine e mesto sorriso. Le disposizioni esistevano, non si sarebbe potuto, ma vista la persona, la sua scrupolosità, la sua distinzione, certo nessuno avrebbe detto di no al Dottore.
Antonio Rocciolatto chinò la testa alla parola “distinzione”, assentendo modesto, e dopo una rapida chiacchierata con la moglie, che ancora non rispondeva ma presto lo avrebbe inondato di frasi, sistemò gli attrezzi in una cappella abbandonata e uscì senza farsi vedere dal custode. Tornò più e più volte, sempre con attrezzi che faceva finta di riportare indietro, inframezzando con visite normali il suo affaccendato andirivieni.
Quando fu pronto si nascose alla chiusura e si fece chiudere dentro e nel buio con movimenti esperti raccolse le parti disperse della Macchina, la montò, la posizionò e cominciò ad aprire le tombe e con allegria crescente, pensando a sua moglie, iniziò a spostare i morti, trasferendoli da una tomba all’altra, da una casa all’altra, incrociandoli, escogitando scambi, e disegnando nella notte linee invisibili: i tragitti dei morti, i loro piccoli viaggi, il loro movimento.
Aveva capito perché sua moglie non gli rispondeva. In quella città tutto era fermo, immobile, congelato in un tempo che non si intersecava in nessun punto con quello suo e degli uomini vivi. La sua mente scientifica ne aveva dedotto che occorreva alterare in qualche modo quello status, increspare le acque di quello stagno ghiacciato, creare una dissimmetria in cui lui avrebbe potuto far valere la sua distinzione, il suo essere speciale, il suo privilegio: quello di parlare non con i morti, ma con lei, solo con lei, sua moglie. Era quella la distinzione che si era guadagnato, e la Macchina gli avrebbe permesso di avvalersene: lavorò duro e i lumini accesi gli davano come un senso di ebbrezza, il sudore gli si incollava sul collo, e il geniale sistema per spostare le bare con pochi leveraggi e ben oliati meccanismi gli permetteva di effettuare sforzi che nemmeno quattro uomini in forma perfetta avrebbero potuto sostenere.
Uscì alla chetichella il mattino dopo e una doccia e un riposo gli permisero di tornare la notte seguente e poi quella dopo e quella dopo ancora e infine si trovò pronto per andare da sua moglie.
Poggiò il cappello, si tolse gli occhiali, rassettò i fiori, seguì un merlo che saltellava guardandolo, e poi le chiese, esitante ma pieno di gioia: “Come stai oggi?”. Attese la risposta. Attese in silenzio. Ripetè la domanda, sempre quella, attese ancora, e guardò un po’ confuso gli agenti che venivano verso di lui seguiti dal custode che lo indicava con il dito, e a quegli estranei che gli facevano domande provò ad opporre anche lui –anche lui- un silenzio ostinato e poi in questura trovò più gentile dire qualcosa a quei signori che lo attorniavano e riaccompagnato a casa restò fermo dietro la porta, pensando.
Il giorno dopo una macchina lanciata contro un camion si schiantò in una nebbia leggera, che lasciava vedere il cielo così azzurro.
I giornali ipotizzarono tutti concordi e sbagliando tutti che Antonio Rocciolatto si fosse ucciso per la vergogna di una inchiesta per quei morti spostati. Nessuno aveva capito che oltre che geniale quell’uomo si sarebbe alla fine della sua vita dimostrato anche intrepido e razionale sino alle conseguenze ultime ed estreme. Non fu vergogna – e di che? Avrebbe detto con il suo mite sorriso-ma solo la constatazione che se la Macchina non era servita, se la sua distinzione non gli aveva permesso di ottenere ciò che più desiderava al mondo, allora ne derivava, indefettibile, la necessità di usare altri mezzi, un’altra macchina, una porta diversa, e nel precipitarsi contro quel benedetto ostacolo la sua domanda era già pronta.

2008, inedito

LAMINE E SOGNI

Per Nicola Zamboni, scultore

Un sottile frammento di latta, poi un pezzo di rame, che brillava rosso nella mano come un fuoco segreto. Ricordava la sensazione di allora, poco più che bambino: di pulito, di concluso, di pefetto e il primo piacere: torcere piegare modellare poggiare su un oggetto più duro ed imitarne sommariamente la forma. E l’odore. A quei tempi non sapeva che i metalli non hanno odore, e ne aspirava un freddo ristoro nei pomeriggi bruciati da quel sole padano.
Ma fu la luce a catturarlo per sempre, i bagliori impassibili che le superfici emettevano.
Fu così che Nicola Zamboni ignorando di essere uno scultore cominciò ad adorare le forme, e la replicazione infinita che l’universo gli offriva. A scuola seppe che esistevano uomini che di quella sua frenesia, di quella sua ansia di copia, avevano fatto un mestiere, forse una vocazione, obbedendo alla quale talvolta erano diventati famosi, più spesso erano rimasti ignorati da tutti; che delle cose che le loro mani avevano costruito si parlava come di opere, di oggetti il cui senso diventava argomento di storie, di interrogazioni, di stupore, di godimento.
Più grande vide ad una mostra che intorno alle sculture esposte i visitatori si fermavano e in alcuni di essi scorse nello sguardo il lampo di un riconoscimento, come se improvvisamente si trovassero davanti ad uno specchio, o a una finestra affacciata su un altro mondo, e decise che avrebbe fatto quello anche lui, sarebbe diventato uno scultore.
Ripensandoci, gli venne in mente quel motto di Nietzsche, posto in epigrafe a Ecce Homo: diventare ciò che si è. Ecco, si diceva, il compito più difficile per un uomo, non tradire sé stesso, e la grande casa nella campagna tra Bologna Modena e Ferrara, ingombra di attrezzi, lastre di metallo, banchi di lavoro, paranchi e, tra quella confusione spiccanti come frasi compiute percepite in mezzo al brusio, loro, le sculture, in diverse fasi di allestimento, quella casa gli sembrava non un porto di rifugio ma una base operosa da cui muovere incontro al mondo, in cui scambiare messaggi, discorsi, alimentare disegni, sostenere sfide.
Era vecchio e si sentiva giovane come quando stringeva la mano intorno a quelle lamine sottili, la luce così lenta dell’inverno padano gli si animava intorno in baluginii inaspettati, ed ora –ne era orgoglioso- splendeva intorno anche a quelle superfici difficili che tanti anni prima gli erano sembrate mute, fatte di materie più sorde: la terracotta, il marmo, il legno, tutto quello che aveva scoperto col tempo possedere dentro di sé la capacità di illuminare chi guarda.
Il suono gioioso del metallo gli era stato dato ascoltarlo e poi riprodurlo in quella sua furiosa epoca di apprendistato con Quinto Ghermandi, ma il resto, la lotta con la materia opaca, era frutto del suo testardo cercare e gli amici che aveva pazientemente rifatto, e le donne che aveva amato, e quella che amava adesso, se erano finiti tutti insieme ad animare un discorso ininterrotto riuniti in gruppo paziente in un giardino pubblico, se avevano avuto la forza di interpellare ogni giorno i passanti, era perché lui era stato capace di catturare la luce che li sfiorava trasformandola in domande:”chi sei?” chiedevano beffarde le grandi statue in terracotta di Pieve, “chi sono?” dicevano e il gioco dei riconoscimenti ricominciava ogni giorno.
Ma adesso era la volta dei sogni, e il sogno della notte appena trascorsa lo aveva chiamato all’impresa più difficile, pensava, e soppesava accarezzandole delle grandi lamine di bronzo, e il rosso gli imporporava la faccia. Come un tempo, ma non per tentare forme indecise, e neppure per costruire grandi figure, assemblando, unendo, completando, chiudendo. Adesso era per togliere, alleggerire, bucare, traforare, rendere vibranti e impalpabili le cose più semplici, quelle per cui solo alla fine di un lungo cammino ci si sente pronti, quelle la cui banale riconoscibilità domanda il rispetto dovuto al privilegio di essere vivi in un mondo così implacabilmente bello.
Come per un fiore, un’onda, la luna tra i rami. Si sarebbe pazientemente consacrato, per sempre, alle foglie.

2008, inedito

L'ECISTA

A Crotone l’ecista tornò 2748 anni dopo e si incazzò di brutto. Il mare, avvicinandosi non era viola, le increspature torpide e come oleose, e dov’era il profumo pungente del salmastro? Quando vide gli edifici enormi sparsi dappertutto emergere dalla foschia l’umore era già compromesso e la rena sporca su cui velocemente si appoggiarono le prue delle navi gli fece schifo.
La città bianca circondata dai boschi che ricordava era sparita: colline sventrate vomitavano un fango argilloso, e una folla indescrivibile occupava una strada lungo il mare. Nulla era come doveva essere, pensava guardando i compagni interdetti e esitanti.
Si lanciò per primo, mentre dalle navi disposte a ventaglio, una ogni 100 metri, i guerrieri prendevano terra dispondendosi in file serrate e i flauti cominciavano a battere il tempo, e donne e bambini sulle spiagge battevano le mani indicando con gesti felici e sorpresi le vele rosse, i costumi bellissimi, gli scudi che lampeggiavano al sole. Si fece largo tra la folla, attese che lo raggiungesse un vecchio che indossava una specie di toga, parlarono tra loro brevemente: nel gruppo di donne che li attorniava Maria Siclari veniva da un paese in cui si parlava ancora greco e le parve di distinguere alcune parole, le sembravano strane eppure familiari, con troppe “e” , ma “anghelos” e “thanatos”, quelle le udì proprio. Messaggero, morte. Il consigliere comunale Brancati, di opposizione, si appoggiò alla balaustra sulla passeggiata a mare e prese a scrivere furiosamente sul retro del grattino che aveva in tasca il testo di una interrogazione urgente con risposta scritta su quell’iniziativa evidentemente organizzata a sorpresa dall’Assessore alla cultura. Adesso pareva che tutta la città fosse accorsa a vedere.
Ci fu silenzio, i flauti tacquero, tutti trattennero il fiato nel vedere una splendida giovenca bianca, le corna adorne di nastri, calare imbragata dal ponte e poi, liberata, dirigersi placida verso il vecchio.
“Arrivano dal mare, come a Cervia!” disse rivolto agli amici un giovane, soddisfatto di far sapere a tutti che lui a Cervia non faceva solo il cameriere ma assisteva anche a spettacoli importanti, come quello teatrale che si ripeteva ogni anno sul lungomare.
L’ecista estrasse la spada dalla guaina: un “ooh!” di meraviglia si alzò dalla folla sorridente. Sorrideva anche lui. Diede un ultimo sguardo circolare sulla città orribile. E puzzava, anche; poi sempre sorridendo si diresse verso un gruppo di uomini cominciando a correre e lo attraversò sempre correndo facendo mulinare con grazia la spada: rotolò una testa, delle grida brevissime accompagnarono corpi che scivolavano a terra, un braccio, isolato, disegnò sulla sabbia un elegante ghirigoro, il rosso si insinuò tra le vesti grottesche dei caduti, e l’ecista era già sulla strada. Apprezzò l’improvviso silenzio, ed anche le urla stridule subito dopo. Senza bisogno di ordini i gruppi di guerrieri si rivolsero per primi contro gli assembramenti di uomini vestiti tutti allo stesso modo, pensando giustamente si trattasse di soldati. Cominciarono con quelli addobbati di nero, una striscia rossa sulle brache, e fu così che i locali carabinieri, tutti in servizio sul lungomare per il mercato del giovedì, vennero quasi completamente trucidati nei primi minuti. Nessuno riuscì a mettere neppure mano alle armi, e ci fu chi si fece docilmente tagliare la gola a bocca aperta per lo stupore. Un momento di confusione tra i guerrieri fu provocato dalle auto, ma ci misero poco a capire che bastava usare lo scudo per infrangere i vetri e tirare fuori le persone dentro come pesci da una nassa. I servi con le torce seguivano dappresso e trovarono con grande divertimento inesauribili esche per gli incendi che andavano appiccando: nessuna città conquistata così facilmente bruciava così bene.
Tra mucchi di cadaveri e il fuoco che divampava i guerrieri instancabili con ansiti brevi inseguivano e falciavano, inseguivano e atterravano. L’ecista si arrampicò dove ricordava una volta, in un altro tempo, in un altro mondo, che fosse il tempio di Era. Al suo posto una scatola enorme, sgraziata, intorno rifiuti, macerie, sporco ovunque: erano le proporzioni delle cose, a ferirlo, le dimensioni fuori scala, la numerosità, il troppo. I barbari si erano impossessati della sua città, ignari di armonia e bellezza.
La curiosità e l’ingegno di un greco sono inarrivabili: trovarono presto come rendere più veloce la distruzione completa. Della città non restò quasi nulla, degli abitanti solo quelli che erano fuggiti. Raccolsero le donne sulla spiaggia e ne scelsero le migliori. Schiave fortunate, avrebbero conosciuto la civiltà e la bellezza.
Il sacrificio della giovenca fu seguito da una rapida partenza. La bestia fu una macchia candida sulla rena grigia: e le navi nella caligine sfumarono una dietro l’altra, dirette ad altri ritorni.

2008, inedito

mercoledì 19 dicembre 2007

LA VERITA' DEI CONTI

Y el mundo, a la mejor, apartenece a los contables.
Evita Peron
Una somma di esattezze non dà ancora come risultato una verità.
Ernst Jünger

A Giacomo Frittoli, ragioniere

“Ragioniere, ragioniere, non faccia così…”
L’uomo del nord si guardò attorno smarrito. Solo sorrisi incoraggianti e cenni di amichevole accondiscendenza. Tornò a fissare il Direttore, che prendeva appunti con aria indifferente, poi alzò lo sguardo su di lui, gli sorrise benevolo, agitò con pigra solerzia la capigliatura scomposta, si accomodò il nodo della cravatta e sospirò.
Citti, il responsabile del Bilancio, proseguì insinuante: “Vede, ragioniere, qui i conti non li controlla nessuno, le tabelle non le vedono proprio. Si soffermano sui segni più o meno di certe voci, e poi vanno subito a guardare il risultato finale, che è quello che conta. Se siamo in pareggio sono contenti, ma un po’ di dubbi gli restano. Un bel disavanzo è quello che ci vuole: modesto, e per questo credibile. Insomma senza esagerare.”
Nella piccola sala si adagiò un silenzio teso. La luce del sud sembrava trapassare i muri e gli schermi dei laptop aperti sul tavolo delle riunioni erano pallidi e sbiaditi. I numeri in filigrana come scritti su ostie parevano lontani e disposti a mutare pur di tornare in vita e acquisire consistenza.
E’ il dipinto finale che conta, la sua bellezza, pensava il Direttore, e i segni preparatori, la sinopia, quello che non si vede, conta poco; e si immerse nel ricordo dei quadri che amava, dimenticando l’uomo confuso che doveva assisterlo. Quella sorta di certificazione interna del bilancio, il primo importante che l’ASL da poco istituita doveva presentare, l’aveva chiesta lui, per incoraggiare al rigore e alla precisione nelle rilevazioni e nelle imputazioni ai vari centri di costo, per garantire un risultato veritiero e conforme ai principi della contabilità.
“Io lo farei grosso” intervenne Breda, del controllo di gestione. “Grosso che, mi scusi?” Il Direttore passò fulmineo ma infastidito dalle divagazioni su Domenico Piola e la scuola genovese alla riunione in corso.
“Un grosso disavanzo, ecco. Così facendo meglio potremo stare sotto dimostrando che abbiamo recuperato.”
Il consulente strabuzzò gli occhi: “Ma come meglio, ma come grosso?” e gli altri ma gli rimasero in gola. Lui aveva tenuto i conti della Bocconi, lui i numeri li sapeva usare e qualche volta piegare a strategie, piani, programmi, ma chiari, definiti, con tempi mezzi e obiettivi studiati con precisione. Qui non sapevano neanche cosa avrebbero fatto il mese dopo, e volevano aggiustare le previsioni.
“Perché?” aggiunse. “Perché taroccare il bilancio se non avete idea di di…”
“Su, ragioniere non faccia così” ripetè Nitti interrompendolo.
“Taroccare mi sembra un termine esagerato. Qui al sud non ha senso fare piani, si vive alla giornata, si fa quel che si può. Diciamo che con un bel disavanzo stiamo dalla parte del sicuro. E poi, mi scusi, le previsioni le facciamo partendo dai dati di consuntivo e quei dati lei sa meglio di me che sono imprecisi, incompleti.”
Il Direttore passò a contemplare la foto del suo cane sul cellulare, pensando che quell’ansia di precisione, di esattezza, quel bisogno di certezze era stato anche il suo, che dal nord avanzato ed efficiente era stato sicuro di trarre stimoli ed esempi utili, che arrivare alle sette in ufficio, due ore prima dei suoi dirigenti, gli era parso un mezzo garbato e convincente per mostrare a tutti come si deve governare una struttura complessa come quella. Guardò con affetto e rimpianto il ragioniere che veniva da lontano. Il cane gli sorrideva, la luce era immensa. Da fuori giungevano a tratti i gutturali e sgraziatissimi richiami dei ragazzi, che li facevano sembrare dei tedeschi. Tedeschi nazisti. Ma incazzati neri, e invece scherzavano. Al sud aveva scoperto che la realtà non è ambigua, ma plurima. Sono molte e tutte presenti, e di ognuna si può cercare la verità. Lo scetticismo è nato in Grecia e predicava non che la verità non esiste ma che ce ne sono troppe. Perché non scegliere quella più utile?
“Mondo fluttuante” disse.
“Prego?” ansimò interdetto il ragioniere.
“Un pittore giapponese dipingeva sempre le stesse cose. Sempre diverse. L’ASL è un mondo fluttuante in una realtà metamorfica. I numeri fluttuano. Il bilancio sono molti. Uno è più” concluse ermetico e involontariamente solenne il Direttore, scuotendo i riccioli bianchi.
Il consulente, gli occhi sbarrati, si alzò di scatto incespicando nel filo del computer. I numeri sullo schermo parvero danzare, poi sparirono. Una chiamata da Milano improvvisa. Un’emergenza, allegò borbottando. Doveva rientrare subito. Anche gli altri si alzarono. Il Direttore lo accompagnò alla porta e come faceva il Principe di Salina gli pose una mano amichevole sulla spalla nel mentre gli ripeteva mellifluo: “Si ricordi ragioniere. Mondo fluttuante”.
2007, inedito

lunedì 17 dicembre 2007

ACHEI AD IKEA

Il 16 aprle 2004 alle ore 17 ad Atene un pomeriggio sonnolento cedeva il passo ad una serata chiara e ventosa: gli dei normalmente scontenti e corrucciati avevano strappato il velo che ogni mattina posavano sulla grande città bianca. Niente nefos, e una brezza che sapeva di mare e che accarezzava anche i campi della grande pianura tra il Pendeli e Maratona. Fu in quel momento che il signor Gunnar Elvstrom si alzò di botto, ancora più pallido di quanto già non fosse, gridando come un ossesso “Where is the police? Where? Wehre?”, e rovesciando la sedia girevole Joel. Ad ogni “where” ognuno più stridulo del precedente, dava un pugno sulla scrivania Gustav: prima saltò la lampada Brotorp, poi la cassettiera Alve. La sua segretaria Melina intervenne in controtempo con una serie ritmata di “Panaghiamu” mentre Teokrithos Ambelachis, il direttore di sede, indeciso tra il greco e l’inglese si orientò su uno scuotimento di testa con “Po, po” di deprecazione.

-L’avevo detto io che qui in Grecia non si poteva aprire una Ikea- aggiunse subito mentre lo svedese si avvolgeva nella tenda Vinde Slinga cercando di allontanare il rumore che saliva dal basso. Nella sala le ragazze che preparavano per il rinfresco ciangottavano a velocità supersonica in un crocchio che andava assumendo l’apparenza di un coro di tragedia: le loro divise nere ne facevano risaltare il gruppo indistinto come un’ombra mobile, proferente oscure ammonizioni tra lo sciabolare dei faretti e i lacerti vividi di renna e di salmone sulle tartine.

L’inaugurazione della prima Ikea in Grecia, vicino al nuovo aeroporto internazionale, era da mesi l’avvenimento dell’anno e quel giorno Katherimeri, il giornale più serio e compassato di tutta la stampa greca aveva dedicato la prima pagina a quell’ultimo tributo che la nazione offriva alla modernità e alle Olimpiadi alle porte.

Intanto il rumore si era trasformato in un ruggito potente, che scuoteva le pareti del grande magazzino: uno sguardo dalla finestra al piazzale, strapieno di una moltitudine per niente composta, fu sufficiente al rappresentante della sede centrale per farlo prorompere in singhiozzi, questa volta in svedese.

Le porte a vetri della zona di uscita e carico merci, progettate appunto per uscire e non per entrare, furono le prime a cedere, nonostante lì fosse scritto a lettere cubitali “exodos”, mentre l’”isodos”, l’ingresso, resisteva ancora.

-Faranno tutto a pezzi. Sono gli anarchici. L’avevo detto io, l’avevo detto io, una multinazionale qui- si lamentava il direttore.

L’urlo della folla adesso aveva un ritmo diverso, un tono ascendente, un battito più uniforme. Erano piedi che marcavano una specie di marcia lenta. Dal groviglio indistinto di rumori si dipanavano incitamenti, apparve all’improvviso in tutto il suo fulgore il battito antico degli anapesti.

Rintronava tutto, mentre la folla si prendeva per mano e formava righe serrate, Sinistra sulla sinistra la destra libera: era la falange che prendeva forma, la falange che aveva portato la Grecia vincitrice sui campi di battaglia, che a maratona, a pochi chilometri da lì aveva permesso di scompaginare un esercito immenso di barbari…

La sicurezza retrocedeva, la porta era ormai indifesa. Nell’atrio si immolarono le prime centinaia di giovani, presi a randellate e portati via dalla polizia che era accorsa in forze ma troppo tardi. Come il battaglione sacro di Epaminonda si sacrificarono sino all’ultimo per permettere agli altri di entrare.

Con alte grida gli impiegati si strinsero al direttore, certi di venire assaliti dalla folla che ormai sciamava tra i letti e le cucine, mentre tartine e birre, crostini di segale e polpettine in salsa volavano da tutte le parti.

Ma non appena distribuitisi ovunque il rumore si affievolì di colpo, la corsa si interruppe tra le scansie, la folla si ruppe in gruppi e poi in tanti tantissimi singoli: chi guardava gli oggetti, chi li toccava, chi provava a leggere le oscure parole di una lingua barbara ma amichevole.

Erano gli Achei che avevano ritrovato dopo duemila anni le vie di un nord lontano, erano le rotte dell’ambra che tornavano alla Grecia. Erano i Cimmeri venuti di nuovo a commerciare in quell’Attica solare.

2007, inedito