PIEVE

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POLAROID

martedì 9 maggio 2017

ACCANIMENTO TERAPEUTICO ALLA SPEZIA

Mi giungono notizie allarmanti sulla scalinata Cernaia, da anni oggetto di un accanimento terapeutico fuor di misura da parte di chi ha già °valorizzato"piazza Verdi. Mi pare giunto il momento di postare di nuovo i tre racconti del mio "Altre Vendicazioni" dedicate alla Spezia. Il Varco, dedicato alla misera piazza, era già stato pubblicato, mentre Cernaia e Presuro li posto oggi sul blog.
Il primo  è dedicato alla raccolta differenziata di rifiuti, che nella nostra città raggiunge vertici di raffinatezza burocratica e gestionale impressionanti, mentre in Cernaia ipotizzo la comparsa di un fantasma spezzino di quella battaglia, tornato a difendere gli alberi daun impudente tecnico del Comune.

IL VARCO

Eccolo, il Varco. Ce n'erano due, uno a mare, uno in Piazza Federici. Quello pedonale era il suo, non era distante, forse mezzora, forse di più. Il passaggio l'aveva programmato con largo anticipo, dunque aveva tutto il tempo. La folla scalpicciava, pareva immobile, ma alzandosi sulla punta dei piedi poteva vedere l'arco  e le persone che sfilavano sotto: qualcuno doveva mostrare i documenti, altri entravano passando lentamente perchè il lettore potesse leggere l'rfid.
I documenti! Dov'erano? Si tastò precipitosamente la tasca interna del soprabito, con il gomito urtò la signora a fianco, uno sguardo d'odio troncò sul nascere il suo tentativo di scusarsi. E il pass l'aveva. Controllò il braccialetto. Era quello che inviava il segnale al lettore.
Tutto a posto. Si rilassò. Un altro metro, avanti, avanti. Certo, era stanco. Aveva abbastanza anni da ricordare come la città era prima. E prima ancora, quando al Costa ci andava lui, e la piazza non solo era libera, e ci si passava in macchina, ma addirittura ci si passeggiava, e sulla scala del Liceo i ragazzi strabordavano sino ad occupare la strada, e dal centro, sotto i pini, guardando da una parte si vedeva in asse, laggiù, stampata sulla collina che spiccava nera sul cielo azzurro, la porta dell'Arsenale, e dall'altra parte, incorniciato tra i palazzi si intuiva lo slargo di piazza Europa.
Sì, era bella, allora, quella città che aveva amato, che si stendeva su due piane che lungo il mare si guardavano attraverso una striscia sottile incalzata dalla collina, una striscia solcata da una grande e lunga, dritta e diretta, sequenza di vie e di piazze che parevano far comunicare le  sue due anime.
La giornata era grigia. Una pioggia sottile pareva evaporare dalla folla assiepata anziché cadere dall'alto. Ormai poteva vedere il Varco. Le palizzate che chiudevano la piazza e lasciavano solo lo spazio per l'arco da una parte, quella più corta che chiudeva via XX settembre dall'altra e la gente alle spalle che spingeva: gli pareva di essere una mucca spinta in un ineluttabile recinto. Un topo, anzi. 
In trappola. E gli agenti della Securitas, l'agenzia privata cui era stata esternalizzata ogni forma di vigilanza e controllo, ai lati del Varco, i cani al guinzaglio, spiccavano neri e corruschi sul grigio di quella lenta processione. Pensava a quando la città gli si spalancava davanti, libera, accessibile, disponibile. Si faceva colazione in via Chiodo, si passava al Circolo Velico, si andava a Lerici passando lungo viale S.Bartolomeo. In macchina! Dove c'era un posto, lì la si lasciava, e da Piazza del Mercato si poteva andare senza ostacoli, a piedi, in piazza Verdi. E al cinema si sceglieva: andare all'Astra o al Cozzani? Due luoghi distanti poche centinaia di metri in linea d'aria, ora separati da una barriera superabile solo a fatica, solo se autorizzati. Ma che diceva? Di che parlava? Erano decenni che l'Astra era stato trasformato in un supermercato, la sua sala con il soffitto su cui campeggiava una grande figura di gesso nascosta per sempre da lividi controsoffitti. E il Cozzani: una sala Bingo. E lì all'angolo, oltre quell'arco presidiato da vigilanti con i cani al guinzaglio, in fondo, a sinistra, non c'era la liberia Ricci? Una volta, tanti anni fa, e poi un orribile bar. Ma tutti i locali lungo la piazza erano chiusi da tempo, qualsiasi cosa ci fosse stata dentro. La città era morta. Un tenue filo di traffico scorreva lungo il viale a mare, sotto l'altro arco, ma serviva soprattutto ai crocieristi che scendevano a migliaia, occupavano la passeggiata Morin, a loro esclusiva disposizione, e con gli autobus potevano liberamente riversarsi verso le Cinque Terre, ignorando la città stremata e bloccata che li accoglieva. Era l'ultima cosa rimasta: qualche euro ogni tanto finiva nelle tasche dei commercianti locali, gli addetti al porto, al terminal, ai servizi potevano ancora mantenere le famiglie. Lui per fortuna era in pensione, ce l'aveva fatta. A 75 anni ma adesso era libero. E poteva aspettare anche delle ore. Ma era quasi arrivato.
E poi quella non era più piazza Verdi. Da quando il Sindaco era rimasto travolto da un pino su cui si facevano le prove di trazione, quella era piazza Federici, in onore di chi aveva così fortemente voluto l'abbellimento e quasi la trasfigurazione della piazza. Il cantiere era ancora lì- quanti anni erano passati? 20, no ben 22, si disse mentre ormai il Varco incombeva. Ricorsi, controricorsi, denunce, diffide: contro tutto e contro tutti, in nome di una visione della città che lo aveva accecato, per imporre a quel popolo di ignoranti, di tradizionalisti, di imbecilli la sublime prospettiva di uno spazio tutto ripensato secondo una prospettiva di assoluta bellezza, aveva imposto quel cantiere infinito che strangolava la città, che rimaneva a perenne memoria di una testarda ma coerente follia.
Sulla palizzata che delimitava lo spazio in cui i lavori si erano fermati da tempo, in cui le macchine arrugginivano sotto la pioggerellina -un pulviscolo, quasi un vapore- perenne e instancabile, campeggiava la scritta di un cittadino molto spiritoso: CHECK POINT CHARLIE.
Sì. La Spezia era stata una città bellissima, prima che si mettessero a migliorarla, a riqualificarla, si diceva, e adesso era come Berlino prima della riunificazione delle due Germanie. Era il suo turno. La guardia lo scrutò sospettoso, il cane emise un ringhio sommesso, alzò il braccio, il bip del sensore suonò, il pass non glielo avevano chiesto, entrò nella zona sorvegliata.
Si voltò a guardare l'arco. Sembrava il portale di un autolavaggio, con quei colori stridenti. Prima di morire il sindaco era riuscito a tacitare Buren, il grande artista cui era stata commissionata la decorazione della piazza, acquistando due archi mobili.
 Bé, servivano davvero, si disse. Facevano colore, non c'è dubbio, pensò. Piazza Europa era chiusa per la costruzione del parcheggio da una infinità di anni, l'accesso al mare vietato, l'ospedale si era sbriciolato nel terremoto del 2020 e quello nuovo costituiva solo l'oggetto di presentazioni e cerimonie e proiezioni di rendering, per andare a Portovenere si faceva prima con il battello da Genova, ma la città aveva i suoi archi di Buren. E pensava che per la prossima festa della Marineria la città sarebbe stata evacuata dei suoi cittadini, e gli archi trionfalmente spostati sulla passeggiata a mare, all'inizio e alla fine, per farli ammirare a tutti i visitatori. No, non era amarezza quella che provava, ma orgoglio. Nessuna altra città al mondo avrebbe resistito a tutto ciò, consentito a quello sfascio, accettato quel disastro. Solo gli spezzini sapevano  coltivare la rassegnazione con tanta docile passione.

PRESURO

Rigirava la parola tra le gengive, biascicando soddisfatto: presuro, presuro, ecco cos'è, un futuro presente, un presente futuro, non ora, non dopo.
Dopora, oropo, borbottava gorgogliando. Il gatto lo guardava, non rispose, ma sembrava aver capito. Si voltò flessuoso, si lisciò con la lingua il pelo della zampa sinistra, poi la stese e la guardò soddisfatto. Estroflesse le unghie, le ammirò, si ricompose.
Il vecchio intanto ciabattando si diresse alla tastiera e chiese allo schermo:
“A che ora?”
“Come posso aiutarla?” rispose lo schermo.
“A che ora arrivano oggi?” ripetè il vecchio.
“Ripeta, la prego. Non ho capito”.
“Porchiddio, a che ora arrivano per la spazzatura?”
“Porchiddio...porchiddio...”, la voce morì in un sussurro pieno di allusioni, lo schermo baluginò, diventò nero, comparve la scritta “Porchiddio not found”, poi la schermata ricomparve, come niente fosse stato.
Il vecchio fissò con odio lo schermo che campeggiava sulla parete, sottile come una pellicola, liscio e vellutato al tocco.
Diede un calcio alla cassetta di frutta su cui stava il gatto, fece traballare pericolosamente la fila di secchi impilati sin quasi al soffitto con cui raccoglieva l'acqua quando passava l'acquaiolo, mise direttamente le mani sui tasti e senza dire parola batté “orari ritiro spazzatura il giovedì”.
Uno schema lucente e colorato comparve come per incanto, si materializzarono orari modalità procedure percorsi.
Ecco, ecco. Sì, perfetto, oggi è il giorno dell'organico vegetale giallo-arancio, e del cartaceo cartonato non colorato.
Il gatto assentì pigramente, ancora offeso per il calcio. Si avvicinò al catino di rame in cui era acceso un piccolo fuoco. Era dicembre, faceva freddo, si sedette sulle zampe posteriori, accomodò la coda intorno al corpo, mentre Paolo sbirciava dalle persiane chiuse  giu’ sulla strada.  Guardo’ l’orologio: tra sette minuti sarebbero passati per il vicolo sottocasa. Per ventidue minuti. Poi, un intervallo di sei minuti.
Sì, ce l’avrebbe fatta!
Si preparo’: prese i due contenitori specifici, controllò di non fare confusione. Erano sedici quelli disposti nella stanza, occupavano quasi tutto lo spazio. 
“E' facile sbagliarsi, poi chi li sente i  rumentisti accertatori?” disse al gatto.
Lo schermo brillò contento, la voce disse “Rumeni sentiti non disponibili”.
“Vaffanculo, troia!” urlò il vecchio, poi un attacco di tosse lo piegò in due, sputacchiò freneticamente, il gatto si tolse con mossa elegante dalla traiettoria, si riprese, stette in ascolto. Un’eco lontana di voci collettive rimbalzava su un’altra ancora piu’ lontana fino a perdersi in una striscia di brusio indistinto, ma tenace.
Urla di comando striate sotto un cielo che cominciava a stellarsi. Da via Carso la grande distesa d'acqua dove un tempo era La Spezia pareva un sudario da cui i mozziconi di palazzi spuntavano come denti marci.
Ecco i suoi: il rombo vociante si avvicino’ lentamente. Parole straniere e passi sulla pietra antica. Tanti passi, tante voci, piccoli lampi di foto in lontananza.
Pronto? Si’…. accanto alla porta. Scarpe di gomma, l’occhio all’orologio.
Una virtu’ ce l’avevano, si’: la puntualità. Il rispetto rigoroso dei tempi di percorrenza.
Ecco…ecco gli ultimi…stanno passando…sono passati.
Presto! Presto!
Ma ce l'aveva fatta. Ripensò al presente su cui rotolava un futuro che era come adesso. Presuro. C'era stato il passato: lui c'era stato, stato sì, era un participio passato. Per l'appunto. Una volta c'era una città laggiù, adesso erano tutti sparsi sulle colline, e le lampade ad acetilene cominciavano a punteggiarle, sino a San Venerio. La corrente elettrica una volta serviva per illuminare, adesso era solo per il computer domestico. Guardò la ghiacciaia che gocciolava. Il ghiaccio era finito, la legna era finita, la spazzatura riempiva la casa, ordinatamente divisa.
Teneva da parte gelosamente ogni tipo. Quando passavano non era previsto il mancato conferimento. Se uno non dava almeno qualcosa rischiava una sanzione. Protestato, sì aveva protestato. 16 tipologie diverse, ogni tre giorni due raccolte, se cadevano di domenica slittavano, se cadevano di venerdì saltavano, facevano...facevano...
Si strappò i capelli a ciocche, si dette dei pugni sulla testa, ansimava, non riusciva a fare il conto, c'era l'organico verde che era lì da 47 giorni e quello rosso con gli avanzi di carne da 34 e la puzza era tremenda.
“La puzza...” disse alla luna che si specchiava sulla laguna.
“Puzza, sostantivo femminile, Putza, pianura ungherese” flautò la voce.
Afferrò la pistola che teneva sotto il materasso per difendersi dai gabbiani-tigre. Il gatto assentì. Gli piacevano quegli uccelli da mangiare. Mirò allo schermo. Il gatto stupì. Si infilò la canna in bocca. Era ancora calda. Perchè non fusente?, pensò.
“Fanculo”disse. Allo sparo il gatto fuggì.

CERNAIA



Comparvero gli alberi. Non ricordava. Scaglionati, in fila, dall'alto venivano verso di lui. Gradoni di pietra si perdevano in quella caligine. Che non era, non era possibile in una mattina di agosto. Cercò il sole con gli occhi, invano.
L'ingegner Panzani, dell'Ufficio tecnico comunale percorreva con calma la scalinata, un sorriso obliquo stampato sul volto paffuto. Bonomia, placido ruminare, manegevolezza dei tratti: un uomo così alla mano,  così disponibile! trillavano i suoi sottoposti, così appassionato al suo lavoro, così innamorato della sua città. Osservava con attenzione le pietre smosse dalle radici, l'imperfetto allineamento degli scalini, e il senso di vecchio gli tolse per un attimo il fiato, gli occhietti gli si indurirono, divenuti fissi, su quel volto così molle, mentre torno torno volgeva il capo per vedere, pesare, stimare: quei parapetti, quell'ombra funesta che gli alberi irradiavano, quelle loro fogliette maligne. Tutto gli faceva orrore, e la visione di acciaio alluminio e cemento che si andava articolando nella sua mente in geometriche e ritmate corrispondenze gli pareva aleggiare sopra quel reperto di un vecchia concezione del decoro urbano. Alberi, pietroni! Luce, ci voleva, ordine. E la luce e l'ordine mancavano. 
Mancavano anche al soldato che guardava perplesso. Dov'era il sergente? E gli alberi ora si erano fermati. Poi si mossero di nuovo. E capì all'improvviso che era lui a spostarsi, non gli alberi. Il mondo era fermo e lui si spostava senza averne coscienza, si guardò i piedi, le sue gambe, immobili, eppure. Fluttuava, in silenzio. Quando vide una persona, si diresse verso di lei e ci si trovò di fronte, subito, non appena formulato quel pensiero: avvicinarsi, chiedere. Dov'era? Che fine avevano fatto i suoi compagni? E se era un russo, pazienza, lo facessero pure prigioniero. Quello non gli prestava attenzione, proseguiva il suo cammino, fatto di avanzamenti, arretramenti, soste, giravolte. Si guardava attorno senza badare a lui che gli stava dappresso, incollato. Faceva uno strano balletto sui gradini. Ecco cos'erano: gradini di una scalinata e gli alberi fronduti erano al centro, e si perdevano in alto, in quel buio che andava schiarendosi. E in quel momento, come fosse stata aperta una porta, i ricordi cominciarono a fluire.
-Dio buono, è ancora notte! 
-O Cozzani, mica i russi t'avevano dato appuntamento alle otto- mì gridò il sergente che passava veloce lungo i bivacchi. 
-Forza forza, in riga, arrivano!- gridava sempre allontanandosi. Moccoli, imprecazioni, borbottii si dipanavano lungo le file come una litania. Da due giorni si sapeva, noi eravamo pronti, prontissimi. E non vedevamo l'ora. Purchè si finisse, l'agosto a Ciorgune faceva schifo e quel nome mi faceva aggrovigliare la lingua. 
Ci disposero su tre linee, ben protetti e trincerati. Alle nostre spalle, a poche centinaia di metri, il Poggio dei Piemontesi. A destra, con il fiumiciattolo (un altro nome strano, Chiuliu, che il Capitano pronunciava Culiu, e noi giù a ridere) in mezzo, quello che chiamavamo lo zig zag, trincee palizzate e fortificazioni fatte alla bell'e meglio.
Il rumore cresceva, una luce fioca cominciava a far spuntare le cime degli alberi dalla nebbia. Davanti, davanti. Avevo visto la carta, io ero stato in seminario, sapevo leggere e scrivere, il Capitano mi spiegava, mi indicava dove eravamo noi e dove erano loro: qui i Francesi, Camou, Faucheux e dietro Herbillon, e i baffi a punta gli fremevano al piacere di dire quei nomi francesi col suo accento da francese. Io mi chiedevo ogni volta, tra me e me, naturalmente, cosa ci facevamo noi lì, tutti quei piemontesi che parlavano in modo incromprensibile e noi liguri, considerati delle merde. Io poi, che venivo da Spezia e per di più ero scappato dal seminario, ero guardato come un animale strano. Mi chiamavano il pretino, e La Spezia non sapevano neppure dov'era.
Era la notte scorsa, era il mattino, poco fa, e subito il dopo si dipanò come un filo. Eravamo in trecento, coperti dietro il fiume Cernaia dalla IV Brigata del Generale Montevecchi. E quelli avanzavano a valanga, un'intera divisione. Il mio compagno di destra fu colpito, la prima scarica, imprecisa, aveva già fatto qualche vittima, il Capitano ci gridava -Giù!, Giù, al coperto. Aspettare a sparare!-, un portaordini correva lungo la linea, la luce cominciava a far distinguere le cose, e li vidi, vidi non solo l'arancio di quei fiori che sbocciavano dai loro fucili, avvolti dagli sbuffi di fumo, come ovatta, vidi le loro facce.
Ricordava tutto, e cominciò a disporre in sequenza quello che rivedeva e mentre si soffermava sull'ufficiale russo che alzata una mano rimase in bilico guardandolo prima di cadere, quel tizio a cui cercava di parlare, vestito in modo strano, un pastore forse, non un soldato, si girò improvvisamente, il viso nel suo, gli occhi che scrutavano. Cosa? Allungò un braccio con cautela, come per sincerarsi della presenza di un vetro, lui provò a parlargli in italiano. Nessuna risposta. Pareva non lo vedesse. Provò con qualche parola in francese, che aveva imparato al campo. Niente. Si accorse che i soli rumori venivano dall'uomo che riprese ad avanzare, le sue scarpe, e poi un borbottio di cui capì solo una parola-diavolo!- detta quasi come l'avrebbe detta lui. Dunque era italiano. Aprì la bocca per chiedergli -italiano?-, glielo disse, glielo ripetè, lo gridò, ma non sentiva la sua voce. L'uomo, in compenso, che aveva cominciato a compitare, con estrema chiarezza, con immensa malevolenza “sephora japonica”, parole che per il soldato non significavano nulla, ma che intese bene, l'uomo, di nuovo, improvvisamente, si fermò, come se avesse udito una voce da lontano, come se qualcosa lo avesse sfiorato.
-Una ragnatela da questi cazzi di alberi- pensò, ma restò interdetto, mentre il soldato, persa la pazienza, cominciava a strattonarlo, a girargli intorno. Non succedeva nulla, ma l'uomo strabuzzò gli occhi.
Perchè lo guardava in quel modo? Certo, pensava, mi sono perso mentre arretravamo verso il poggio dei piemontesi. Avevamo resistito alla brava, per oltre un'ora, e poi indietro, fermi di nuovo.
A sinistra, dal ponte sul fiume, veniva il rombo continuo dei cannoni. 
-Ragazzi, i francesi hanno perso il ponte e i russi sono di là ma li stanno prendendo sul fianco. Tranquilli!- diceva il sergente.
-Bazzecole- dissi io al mio vicino, uno di Asti che mi era simpatico -la nostra cavalleria li farà a pezzi-
Ci tenevo a passare per uno istruito, avevo passato dei giorni a spiegare ai camerati del mio plotone come e perchè i russi non sarebbero riusciti a togliere l'assedio a Sebastopoli.
Sì, ricordavo tutto, le ore che passavano e l'attacco che aveva ripreso lo zig zag e il generale Montevecchio morto guidando l'assalto e la sua Brigata inferocita mentre tra le linee passava la voce e i russi erano in rotta e tutto era finito, e l'alba era diventata un mattino bellissimo. Poi...
Poi non ricordava più nulla, se non quel cielo cosparso di nuvole veloci che gli avevano ricordato il suo golfo, le baruffe tra i venti e il placido mattino di un agosto sul mare.
L'uomo adesso con una scatola in mano portata sull'occhio girava su stesso, si fermava, poi guardava dentro la scatola. Qualcosa dentro la scatola attirò la sua attenzione, mentre lui gli batteva l'indice sulle spalle, sul petto, senza destare alcuna reazione. Come se non esistesse, eppure l'uomo adesso era vigile, si guardava intorno circospetto. Osservò la corteccia dell'albero vicino, a cui il soldato si era addossato. 
L'ingegner Panzani era stato munito, alla nascita, di un corredo di qualità che non comprendevano l'immaginazione. Rimase dunque prima stupito, poi incuriosito, da quella figura che pareva disegnarsi sul bruno della corteccia. Cos'era? Lui era venuto per un ultimo sopralluogo alla scalinata Cernaia prima di dare il via ai lavori che avrebbero cancellato quei maledetti alberi che deturpavano con le loro radici i lastroni e che toglievano luce con la loro ombra. Se ne fotteva, lui, dei comitati che si opponevano. Gridassero pure. Lui aveva l'Amministrazione (pronunciava sempre la parola con una particolare enfasi sulla a, che diventava maiuscola) dalla sua parte. Ma si sentiva a disagio, quella mattina. E quella sensazione... Guardò meglio. Il soldato gridò mentre quel faccione gli si accostava, i suoi occhi lampeggiarono, era furioso di non essere manco visto. Un grido che sembrava un guaito risuonò improvviso, e lui colse finalmente, negli occhi dell'altro il segnale che attendeva: l'aveva visto. Aveva visto quella faccia come stampata sulla corteccia dell'albero ma anche il soldato si era reso conto che lui era l'albero, lui era dentro l'albero, lui non poteva essere sul campo di battaglia, e si mosse spaventato e ancora di più si spaventò quando capì che la velocità del suo spostamento non era possibile, che non poteva salire lungo il tronco, passare attraverso la chioma, emergere da quel verde, salire e vedere il cielo come lo ricordava e dall'alto, sempre più in alto, vedere una città grande, piena di case, sconosciuta, ma incastonata in quello che era il suo golfo, che non poteva non riconoscere, che non avrebbe mai confuso con altre disposizioni di monti di coste e di mare. 


Lui era tornato. Appena in tempo. Il soldato non lo sapeva e non lo avrebbe mai saputo ma l'ingegner Panzani aveva improvvisamente scoperto di avere una immaginazione fervida, di aver visto un albero che lo ammoniva a non distruggere lui, i suoi fratelli,  e quella scalinata vecchia che li ospitava da oltre cent'anni, e mentre scendeva a precipizio cercando di sfuggire all'ombra minacciosa delle chiome, pensava a quali insuperabili difficoltà tecniche rendevano impossibile l'operazione. Il soldato era felice. Aveva capito perchè era tornato. La battaglia intorno alle rive di quel fiume era finita e il mare che aveva amato -ma quando, quanto tempo prima?- era lì, gli rivolgeva i cenni d'uso, lo chiamava. E lui ora, finalmente, era libero.