PIEVE

PIEVE
POLAROID

domenica 11 settembre 2011

STORIA FUTURA DELLA FINE D'ITALIA

Nato come un saggio, per un numero di Palomar che non è mai uscito, questo testo si è disseccato e contratto nel corso degli anni, man mano che i fatti della vita politica e sociale del nostro paese mostravano via via sempre meglio quanto qualsiasi testo fosse impari alla realtà che andava dispiegandosi: è rimasto, ancorato al concetto di fin de siècle, quel rimando all'Europa felix sulla soglia del baratro. Ci risiamo, ma questa volta l'abisso è solo per noi, e se trapela qua e là un sorriso un pò beffardo, forse addirittura sereno, a mutare il ghigno di orrore e disperazione in una composta accettazione dell'inevitabile è perchè si sottintende che la dissoluzione di questo paese di sarti di ladri di corrotti e imbecilli non possa che giovare non solo a quell'Europa di cui facciamo ancora indegnamente parte ma anche, individualmente, ai tanti di noi che vorrebbero tornare a vivere e a lavorare in una società civile. Niente citazioni, e neppure un nome : basta con gli autori, gli studiosi, i pensatori. Basta con le fini : di secolo, di millennio. Provare con gli inizi - questo mi è parso più originale e soprattutto più necessario - in un grande silenzio, in una pausa dilatata, in un volontario isolamento. Pensare da lontano , guardare da lontano.Mi allontano con infinito fastidio dal circo del pensiero che si interroga sulla fine del secolo, che non può fare a meno di bilanci, rendiconti. Fare il punto su qualcosa che finisce : ecco una tentazione cui non si può resistere, e a cui non è pari la vanità di nessuno.
Mi sforzo di fare il vuoto, di affrontare in perfetta solitudine l’argomento. Aggiungerò alle altre innumerevoli la mia voce facendo finta che sia l’unica, ma so già che non è possibile evitarle, che non sarò in grado di ricacciare indietro quelle che mi sorgono da dentro, i rimandi infiniti a ricordi che non sappiamo più se nostri oppure no, a frasi a discorsi che increspano e screziano il velluto uniforme di una riflessione impossibile. E’ appunto una delle maledizioni del novecento, non poter pensare altro che il pensiero.
Chi l’ha detto - Con queste citazioni puntellerò le mie rovine ? Mi ha accompagnato per anni, mi ha fatto da guida - forse Eliot ?
Ma una domanda la voglio estrarre dal mucchio : perché tutti hanno rinunciato, con un sospetto e silenzioso consenso, ad utilizzare quel comodo termine, che spesso a sproposito si intinge in ogni salsa quando si parla del secolo scorso nel suo aprirsi sul novecento : fin de siècle ?
Si dirà forse che l’incanto di quegli anni, la spensierata felicità che il senso storico comune gli attribuisce, sono in realtà esagerati per dipingere meglio, in contrasto, la tragedia della grande guerra che ha cambiato l’Europa e inaugurato il secolo che finisce ora ? Appunto per quell’ambiguo richiamo ad un pericolo latente bisognerebbe oggi con scrupolo tornare a quelle parole leggere come spuma : sapete cosa ci aspetta ?
Negli archivi di Babele, oggi perdute e domani profetiche, non mancano certo le voci di chi avrà anticipato con rigore la storia del prossimo secolo, così come cento anni or sono aveva fatto Nietzsche.
Se ci manca il dono della profezia, abbiamo tuttavia segni prognostici in abbondanza per tentare qualche anticipazione. Eppure quanta fatica nel pronunciare queste parole, così dissimili da noi ! Viviamo in una cultura dell’inventario, del riepilogo, anche della prospettiva, ma tutta all’indietro, rivolta alle nostre spalle, e per colmo arricchita da risorse inutili dell’intelligenza, da una passione classificatoria cui sfugge il domani prossimo e che analizza e ricostruisce in ogni più minuta particola lo ieri.
Antivedere, prevedere, presentire : ecco il grande traguardo cui piegare oggi la capacità di stare nel mondo. Non la psicostoria della fantascienza, trionfo del determinismo ottocentesco, ma una “prostoria” che delle onde lunghe sappia descrivere con taglio probabilistico anche la parte che ci sta trascinando e quelle che seguiranno.
Non solo il presente come storia, grande conquista della riflessione del novecento su stesso, ma anche il futuro come oggetto di investigazione.

La poesia di Kavafis sui barbari alle porte inaugura il secolo e prefigura il movimento incessante del desiderio che si maschera da terrore : è il filo conduttore del novecento.
E’ anche una citazione, detrito scelto ed estratto da una immensa rovina, e ancora un impegno non rispettato, perché quel vuoto cui facevo cenno, quell’assenza di presupposti, quel tentativo di pensare da zero , quella felice ipotesi di un silenzio che dia senso ad una voce quale che sia, insomma tutti i termini di una promessa che non arrivo a rispettare sono per l’appunto gli elementi costitutivi di un grande sogno, di una utopia in cui il secolo ha creduto più di quanto si sospetti, e che ha sostanziato le altre, le utopie di liberazione del lavoro e di azzeramento dei poteri che nei libri di storia trovano il momento simbolico di coagulo nell’ottobre 1917.
Accumulo, ingorgo dei pensieri, mole smisurata e inconoscibile, concerto assordante : il peso del passato e i tentativi di liberarsene, il gesto felice, irridente e fallito dei futuristi - non sono tutti gli elementi di quel fastidio, di quel disagio, di quel senso di soffocamento, cui si è voluto opporre, con tenacia, con cieca determinazione, con costanza e continuità, insomma con l’eroismo che è un’altra cifra di questa modernità, in politica come nell’elaborazione letteraria del reale, nel campo della visione come in quello della musica, una drastica semplificazione, un ripensamento alla radice, un’orgogliosa ripulsa degli antichi maestri ?
Era questo che attendevano i cittadini della poesia di Kavafis, e la paura era il brivido del desiderio, il travisamento socialmente accettabile di un bisogno che per essere collettivo era non meno segreto e inconfessabile.
Ma appunto quei barbari non sono arrivati . Ne sono arrivati altri : cittadini mutanti invece di selvaggi e liberi scorridori, espressione deturpata e corrotta di quella stessa polis i cui membri si assiepavano sulle mura per vederli invano arrivare da lontananze insondabili. Se i barbari non sono arrivati, se la semplicità non si è instaurata, se la storia non si è azzerata per poter ricominciare è perché noi ci siamo imbarbariti , il mondo si è fatto complesso in modo irredimibile, la storia continua tuttavia.
Cento anni è la risposta sbagliata, lo sappiamo da tempo. Hobsbawm propone un secolo breve, che inizia il 1914 e termina con la caduta del muro di Berlino. Foa ritiene che la data di inizio non possa che essere antecedente all’insieme delle cause che hanno condotto alla grande guerra, e ipotizza il 1896, che costituisce in effetti per l ‘Europa un punto di snodo del ciclo economico. Ma il 1896 è anche l’anno di Adua, l’anno cioè in cui la grande avventura coloniale che ha attraversato l’ottocento non solo politicamente ma anche nella cultura, nei costumi, nell’immaginario di massa, trova la sua brutale (a poca distanza di tempo dai drammatici avvenimenti del Sudan) e poco gloriosa fine. E il 1896 è anche l’anno di Creta, del primo tentativo di azione concertata per garantire la pace, cui l’Italia partecipa con grande rilievo - e del cui sforzo resta agli atti non molto più del malinconico ricordo di Bobulina in Zorba il greco - inaugurando la stagione della concertazione internazionale in funzione di mantenimento della pace che alla fine del secolo caratterizzerà il lungo secondo dopoguerra.
E invece è finito con il ’68 il novecento. Siamo già nel duemila da ben più di dieci anni e non ce ne eravamo accorti.
Chi ricorda l’orribile società civile ? Emerge con forza una frase di Leopardi, che diceva : “la società stessa, così scarsa come ella è, è un mezzo di odio e disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini”.
Ecco perché saremo i primi ! Al movimento generale che trascina tutti noi aggiungiamo del nostro.