Continua il dramma di una città divisa. Ecco un contributo in memoria dell'infinita, e inutile, pazienza degli spezzini. Il racconto entrerà a far parte di una nuova raccolta dedicata alle nostre città.
IL VARCO
Eccolo, il Varco. Ce n'erano due, uno a
mare, uno in Piazza Federici. Quello pedonale era il suo, non era
distante, forse mezzora, forse di più. Il passaggio l'aveva
programmato con largo anticipo, dunque aveva tutto il tempo. La folla
scalpicciava, pareva immobile, ma alzandosi sulla punta dei piedi
poteva vedere l'arco e le persone che sfilavano sotto: qualcuno
doveva mostrare i documenti, altri entravano passando lentamente
perchè il lettore potesse leggere l'rfid.
I documenti! Dov'erano? Si tastò
precipitosamente la tasca interna del soprabito, con il gomito urtò
la signora a fianco, uno sguardo d'odio troncò sul nascere il suo
tentativo di scusarsi. E il pass l'aveva. Controllò il braccialetto.
Era quello che inviava il segnale al lettore.
Tutto a posto. Si rilassò. Un altro
metro, avanti, avanti. Certo, era stanco. Aveva abbastanza anni da
ricordare come la città era prima. E prima ancora, quando al Costa
ci andava lui, e la piazza non solo era libera, e ci si passava in
macchina, ma addirittura ci si passeggiava, e sulla scala del Liceo i
ragazzi strabordavano sino ad occupare la strada, e dal centro, sotto
i pini, guardando da una parte si vedeva in asse, laggiù, stampata
sulla collina che spiccava nera sul cielo azzurro, la porta
dell'Arsenale, e dall'altra parte, incorniciato tra i palazzi si
intuiva lo slargo di piazza Europa.
Sì, era bella, allora, quella città
che aveva amato, che si stendeva su due piane che lungo il mare si
guardavano attraverso una striscia sottile incalzata dalla collina,
una striscia solcata da una grande e lunga, dritta e diretta,
sequenza di vie e di piazze che parevano far comunicare le sue due
anime.
La giornata era grigia. Una pioggia
sottile pareva evaporare dalla folla assiepata anziché cadere
dall'alto. Ormai poteva vedere il Varco. Le palizzate che chiudevano
la piazza e lasciavano solo lo spazio per l'arco da una parte, quella
più corta che chiudeva via XX settembre dall'altra e la gente alle
spalle che spingeva: gli pareva di essere una mucca spinta in un
ineluttabile recinto. Un topo, anzi.
In trappola. E gli agenti della
Securitas, l'agenzia privata cui era stata esternalizzata ogni forma
di vigilanza e controllo, ai lati del Varco, i cani al guinzaglio,
spiccavano neri e corruschi sul grigio di quella lenta processione.
Pensava a quando la città gli si spalancava davanti, libera,
accessibile, disponibile. Si faceva colazione in via Chiodo, si
passava al Circolo Velico, si andava a Lerici passando lungo viale
S.Bartolomeo. In macchina! Dove c'era un posto, lì la si lasciava, e
da Piazza del Mercato si poteva andare senza ostacoli, a piedi, in
piazza Verdi. E al cinema si sceglieva: andare all'Astra o al
Cozzani? Due luoghi distanti poche centinaia di metri in linea
d'aria, ora separati da una barriera superabile solo a fatica, solo
se autorizzati. Ma che diceva? Di che parlava? Erano decenni che
l'Astra era stato trasformato in un supermercato, la sua sala con il
soffitto su cui campeggiava una grande figura di gesso nascosta per
sempre da lividi controsoffitti. E il Cozzani: una sala Bingo. E lì
all'angolo, oltre quell'arco presidiato da vigilanti con i cani al
guinzaglio, in fondo, a sinistra, non c'era la liberia Ricci? Una
volta, tanti anni fa, e poi un orribile bar. Ma tutti i locali lungo
la piazza erano chiusi da tempo, qualsiasi cosa ci fosse stata
dentro. La città era morta. Un tenue filo di traffico scorreva lungo
il viale a mare, sotto l'altro arco, ma serviva soprattutto ai
crocieristi che scendevano a migliaia, occupavano la passeggiata
Morin, a loro esclusiva disposizione, e con gli autobus potevano
liberamente riversarsi verso le Cinque Terre, ignorando la città
stremata e bloccata che li accoglieva. Era l'ultima cosa rimasta:
qualche euro ogni tanto finiva nelle tasche dei commercianti locali,
gli addetti al porto, al terminal, ai servizi potevano ancora
mantenere le famiglie. Lui per fortuna era in pensione, ce l'aveva
fatta. A 75 anni ma adesso era libero. E poteva aspettare anche delle
ore. Ma era quasi arrivato.
E poi quella non era più piazza Verdi.
Da quando il Sindaco era rimasto travolto da un pino su cui si
facevano le prove di trazione, quella era piazza Federici, in onore
di chi aveva così fortemente voluto l'abbellimento e quasi la
trasfigurazione della piazza. Il cantiere era ancora lì- quanti anni
erano passati? 20, no ben 22, si disse mentre ormai il Varco
incombeva. Ricorsi, controricorsi, denuncie, diffide: contro tutto e
contro tutti, in nome di una visione della città che lo aveva
accecato, per imporre a quel popolo di ignoranti, di tradizionalisti,
di imbecilli la sublime prospettiva di uno spazio tutto ripensato
secondo una prospettiva di assoluta bellezza, aveva imposto quel
cantiere perenne che strangolava la città, che rimaneva a perenne
memoria di una testarda ma coerente follia.
Sulla palizzata che delimitava lo
spazio in cui i lavori si erano fermati da tempo, in cui le macchine
arrugginivano sotto la pioggierellina -un pulviscolo, quasi un
vapore- perenne e instancabile, campeggiava la scritta di un
cittadino molto spiritoso: CHECK POINT CHARLIE.
Sì. La Spezia era stata una città
bellissima, prima che si mettessero a migliorarla, a riqualificarla,
si diceva, e adesso era come Berlino prima della riunificazione delle
due Germanie. Era il suo turno. La guardia lo scrutò sospettoso, il
cane emise un ringhio sommesso, alzò il braccio, il bip del sensore
suonò, il pass non glielo avevano chiesto, entrò nella zona
sorvegliata.
Si voltò a guardare l'arco. Sembrava
il portale di un autolavaggio, con quei colori stridenti. Prima di
morire il sindaco era riuscito a tacitare Buren, il grande artista
cui era stata commissionata la decorazione della piazza, acquistando
due archi mobili.
Bé, servivano davvero, si disse.
Facevano colore, non c'è dubbio, pensò. Piazza Europa era chiusa
per la costruzione del parcheggio da una infinità di anni, l'accesso
al mare vietato, l'ospedale si era sbriciolato nel terremoto del 2020
e quello nuovo costituiva solo l'oggetto di presentazioni e cerimonie
e proiezioni di rendering, per andare a Portovenere si faceva prima
con il battello da Genova, ma la città aveva i suoi archi di Buren.
E pensava che per la prossima festa della Marineria la città sarebbe
stata evacuata dei suoi cittadini, e gli archi trionfalmente spostati
sulla passeggiata a mare, all'inizio e alla fine, per farli ammirare
a tutti i visitatori. No, non era amarezza quella che provava, ma
orgoglio. Nessuna altra città al mondo avrebbe resistito a tutto
ciò, consentito a quello sfascio, accettato quel disastro. Solo gli
spezzini sapevano coltivare la rassegnazione con tanta docile
passione.