PIEVE

POLAROID
domenica 1 novembre 2009
MORTE DI RUPERT BROOKE
lunedì 31 marzo 2008
EPITAFFI PER GIOVANI CANI
Su quel tratto di strada, tra Barletta e Bisceglie, si contano a decine i cadaveri di cani abbandonati, travolti dalle auto, lasciati a marcire sino in qualche caso ad impastarsi con l’asfalto, ombre finalmente placate di una Hiroshima domestica. Sono detti randagi, ma sono cercatori: si muovono in drappelli, guidati da un capo, in piccole fila ordinate, in cerca di cibo, di riparo, ma soprattutto di uomini e donne: solo quelli tra i tanti, tra i troppi, che gli appartengono. Dalla fila ogni tanto un muso si alza, il trotto rallenta e si ferma, e degli occhi in cui brilla per un attimo una domanda ti scrutano stanchi, poi rassegnati. Non sei tu, e lui è già lontano.
Il cartello fu portato via e sulla strada venne fatta pulizia a spese del Comune. Ne nacque un delicato caso burocratico, la strada era provinciale, l’iniziativa, tuonò la Gazzetta era lodevole ma improvvida, la Corte dei Conti sentito odore di danno erariale si precipitò come un avvoltoio sulla questione, la Procura mise da parte assassinii, furti e rapine e si concentrò sull’abuso di ufficio, pareri pro-veritate vennero chiesti a diversi legali che dovevano chi cambiare la macchina chi comprare un appartamento per l’orribile figlia, a Bisceglie intanto giudicarono inammissibile che Barletta avesse preso una tale iniziativa sul tratto di strada di loro pertinenza e Trani, Trani non si tirò indietro e se la prese con la Regione.
Frattanto i cani continuavano a morire, e se quelli portati via non poterono essere ridisposti dove la morte li aveva colti, in compenso le nuove vittime restarono dov’erano.
Nessuno si ricordò del cartello, sino a quando non ne comparve un altro, vicino ad uno splendido Labrador spappolato in territorio di Trani, sulla solita strada. Diceva: mi chiamavo Rex, Giacomo Tarantini mi ha lasciato su questa strada, non ho capito perché.
Questa volta sulla Gazzetta un cronista fece pubblicare un’intervista a Giacomo Tarantini, che negò risolutamente di aver abbandonato il cane, povera bestia, effettivamente suo: l’aveva cercato e cercato ma niente, non se ne era più saputo nulla. Il tema del randagismo venne di nuovo sollevato con forza, i sindaci furono chiamati in causa, l’ASL criticata rispose che i suoi compiti si limitavano alla cura e alla sterilizzazione, ma il “confinamento” e la custodia (questi i termini usati da un funzionario che forse sapeva come le SS nei territori dell’est avessero scandito con consumata sapienza le fasi di un loro progetto: ricerca, confinamento, custodia, sfruttamento, eliminazione) spettavano ad altri. Mentre le folate del vento d’aprile alzavano sulle strade teli di plastica abbandonati, cartoni e lacerti e brandelli di stoffe, frugando con delicatezza nei mucchi di spazzatura deposti ai bordi e alzando leggiadri mulinelli dai mucchi di immondizia, mentre le tegole di amianto adagiate dappertutto si sfarinavano con grazia, mentre i buchi sull’asfalto inghiottivano le auto sputando molle e sospensioni, i vigili urbani si misero in caccia di chi aveva sistemato il cartello, provvedendo alla denuncia alle autorità competenti, ignari delle parole “costo”, “benefici”, “opportunità” ma devoti alla Legge.
Varie associazioni animaliste vennero coinvolte, indagate e additate alla riprovazione dei cittadini per il fondato sospetto che quella carnevalata fosse opera loro. Dopo la scoperta in una gravina delle Murge dei cadaveri di oltre cento cani precipitati nel vuoto dal proprietario di un canile privato che aveva evidentemente compreso il senso riposto di tutti quei soldi che le istituzioni gli davano per risolvere il problema del randagismo la cosa prese improvvisamente un’altra piega: accanto ad ogni corpo comparve un cartello, questa volta in laminato plastico e con i caratteri fosforescenti che la notte improvvisamente ti colpivano come rasoiate sulla faccia. Asportarli non servì a nulla: ricomparivano come niente fosse, e la sorveglianza discreta delle forze dell’ordine, abbandonate ad Andria le indagini su omicidi rapine e attentati, non fu in grado di venire a capo dei misteriosi epitaffi, che ormai si moltiplicavano in tutto il nordbarese.
I cani comparivano in gruppi sempre più numerosi, ma composti e quasi assorti si guardavano attorno. Nei luoghi abituali di ritrovo aspettavano i benevoli esseri umani che sempre più numerosi li rifornivano di cibo e se non mancavano di esprimere gioia e riconoscenza lo facevano con quasi misurata degnazione.
Un giorno nella Cattedrale il prete all’apertura trovò tre piccoli bastardini seduti sul gradino del coro, lo sguardo rivolto all’altare, le code penzoloni allineate sul bordo a disegnare tre virgole talmente belle a vedersi che per un po’ restò a bocca aperta ad ammirare lo spettacolo prima di ricacciare un sorriso poco adatto al sacrilegio e cacciarli via in malo modo.
Sinceratosi di non aver lasciato aperta alcuna porta non ci pensò più sino al mattino seguente, in cui i cani erano diventati sette, grandi e muscolosi. Provò a dire qualcosa ma tacque allo sguardo del primo, di muto rimprovero, e a quello del secondo, di minaccia. Il terzo si limitò a fargli un sorriso balenando le zanne lunghe e bianchissime.
I cani adesso comparivano in luoghi dove non erano mai stati, in luoghi che erano vietati persino a quelli dotati di padrone. Alla Villa Comunale di Trani, in cui il custode godeva da tempo del privilegio di inibire l’accesso a cani al guinzaglio immancabilmente più educati e civili di lui, si presentarono in 12, lo circondarono con garbo e lo confinarono nel suo gabbiotto semplicemente facendogli ascoltare un loro concerto per ringhio e ansiti profondi, una specie di “om” ripetuto su tutte le frequenze.
La misura fu colma quando al palazzo Della Marra davanti al quadro di De Nittis che raffigura il pittore e la famiglia che fanno colazione si trovò un fox terrier in contemplazione, seduto sulle zampe posteriori, piantato sul pavimento lucido come un triangolo al cui vertice superiore tremavano i baffi, con l’aria di voler restare per sempre perduto a guardare. Altri cani trotterellavano tra una sala e l’altra con misurato disdegno degli umani che provavano a farli uscire.
La città precipitò per prima in un caos che in nulla si differenziava da quello consueto se non per lo scandalo di una presenza incomprensibile e per il dubbio che cominciava a prendere forma.
Mentre tutti si stracciavano le vesti e i capelli per il calo della produzione, per la disoccupazione, per il grande centro commerciale di Molfetta che faticava a vendere prodotti inutili costosi e persino dannosi per menti sature e disperate, la vista dei cani che avanzavano in schiere senza neppure il collare, senza aver bisogno di altro che di cibo e riparo, che giocavano e si accoppiavano allegramente, e che guardavano i loro padroni –quelli ancora tali e quelli che non avevano voluto più esserlo- con benevola attenzione ma da una distanza che pareva sempre più grande, sembrò ad alcuni –pochi all’inizio e poi sempre di più- non tanto un rimprovero quanto un avvertimento.
Nella superstiziosa Italia di santi e madonne unica consolazione per aver abdicato alla ragione e al governo di sé e degli altri, unico contrappeso al senso di inutilità e incapacità collettiva è la certezza che qualcuno stende su ciascuno di noi una mano amica e soccorritrice, e non mancano in Puglia slogan conseguenti, incitamenti al narcisismo e inviti a non pensare. “Dio ti ama” è uno di questi, ripetuto ormai come il claim di una marca di preservativi, formulato da disgraziati che ignorano quanto una simile affermazione deponga a sfavore dell’esistenza di un dio ovvero della sua intelligenza. Nei migliori il dubbio cresceva pensando che forse quel “ti” non si riferisse a loro.
Quando un cocker figlio di mille incroci per primo si accoccolò davanti all’oratorio annesso alla parrocchia di Santa Maria, dove quel cartello campeggiava orgoglioso, seguito poi da una folla muta di bastardi meticci cani di razza, orrendi, belli, di mille colori, tutti disposti in cerchio a fissare le parole scritte da un prete ingenuo, e quando dal silenzio calato tutto attorno proruppe infine un mugolio indistinto, e dai contenuti guaiti si formò un inno, la certezza della sapienza divina e della propria condanna furono improvvise definitive e forse liberatorie.
lunedì 4 febbraio 2008
DISTINZIONE A CHERASCO
Ma lei non rispondeva, e Antonio Rocciolatto insisteva tranquillo, e la sera ormai padrona del cimitero trasse da quel fondo di nero, in basso, la figura prima indistinta poi come per magia già vicinissima, al suo fianco, del custode che lo invitava ad accomodarsi, a uscire, era già passato l’orario di chiusura.
Raccolse il cappello, sistemò i fiori, seguì l’uomo sino al grande cancello, si scusò affabile come sempre, salutò. Si chiedeva perché sua moglie non gli avesse risposto: sapeva bene che i morti non parlano ai vivi, gli era tutto chiaro, non aveva un temperamento mistico e non credeva a nessuna forma di magia. Aveva 73 anni e non era rimbambito. Ma con altrettanta pacifica sicurezza era acutamente consapevole di essere, lui, unico e insostituibile, diverso da ogni altro essere vivente, di essere nella sua assoluta normalità – e mediocrità, anche, aggiunse bonariamente tra sé- speciale e irriducibile a tutto il resto, insomma di avere per ciò stesso, come tutti del resto, diritto ad una distinzione, a qualcosa solo ed esclusivamente sua: e lui da tempo aveva chiesto che quell’unico diritto, quell’unica distinzione consistesse nella possibilità di continuare a parlare con la sua adorata compagna anche dopo la sua morte, la morte di lei, da tempo annunciata, da tempo prevista.
Le diceva ridendo, quando la malattia era ormai avanzata: “Stai tranquilla, non preoccuparti, ti farò compagnia anche dopo”, ed anche, facendo gli occhi cattivi: “Mi toccherà sopportarti anche dopo, accidenti…”, ed era tutto contento di quella distinzione, che sapeva di aver meritato per il suo amore, la sua dedizione, la sua rinuncia a tutto il resto.
Quel giorno –era il primo dopo il funerale che aveva dedicato a lei con calma, a tu per tu- rimase un po’ interdetto, ma si disse che ci voleva forse del tempo, e che i morti hanno l’eternità davanti e devono di nuovo abituarsi ai poveri tempi stretti dei viventi per parlare con loro.
Così, tornò più volte, povero Rocciolatto: divenne una presenza consueta, le sue visite ritmavano il tempo degli altri, dei visitatori distratti, e pure ignorando chi fossero Henry James e Gorge Stransom cominciò, come quest’ultimo aveva fatto dell’altare nella chiesa, a considerare quel giardino e quei vialetti come il verde e grigio sfondo di tutta la sua vita.
La sua pazienza non venne mai meno e quei colloqui senza risposta alcuna con la lastra su cui qualche lichene aveva cominciato a disegnare i segni di un alfabeto che gli restava ignoto erano diventati dal primo pomeriggio sino al buio della chiusura un particolare tra i tanti di una città di morti affollata di steli, statue, alberi e iscrizioni.
Un giorno capì e seduto su una panchina fumando pensò e ripensò a quanto era stato stupido a non arrivarci prima, e a come fare per rimediare, la mente ordinata e precisa già all’opera su alcune soluzioni possibili: quella distinzione invocata richiedeva da parte sua un’azione, come si preme un bottone per avviare una macchina, come si muove una mano per afferrare un bicchiere. Una azione semplice, ma che avrebbe richiesto discrezione, silenzio, segretezza.
La Macchina nacque dalle sue mani addestrate ad ogni lavoro e dal suo cervello. Il questore l’avrebbe poi definita “leonardesca”, ammirato come tutti dall’ingegnosità delle soluzioni meccaniche, dalla funzionalità del tutto, dalla semplicità geniale dei dispositivi.
Cherasco splendeva nella luce meridiana di un giorno di ottobre quando si presentò in anticipo recando alcuni strumenti che – spiegò al custode divenuto ormai suo amico- gli servivano per dare una sistemata intorno alla tomba, se, naturalmente non esisteva qualche disposizione di regolamento contraria, aggiunse con un fine e mesto sorriso. Le disposizioni esistevano, non si sarebbe potuto, ma vista la persona, la sua scrupolosità, la sua distinzione, certo nessuno avrebbe detto di no al Dottore.
Antonio Rocciolatto chinò la testa alla parola “distinzione”, assentendo modesto, e dopo una rapida chiacchierata con la moglie, che ancora non rispondeva ma presto lo avrebbe inondato di frasi, sistemò gli attrezzi in una cappella abbandonata e uscì senza farsi vedere dal custode. Tornò più e più volte, sempre con attrezzi che faceva finta di riportare indietro, inframezzando con visite normali il suo affaccendato andirivieni.
Quando fu pronto si nascose alla chiusura e si fece chiudere dentro e nel buio con movimenti esperti raccolse le parti disperse della Macchina, la montò, la posizionò e cominciò ad aprire le tombe e con allegria crescente, pensando a sua moglie, iniziò a spostare i morti, trasferendoli da una tomba all’altra, da una casa all’altra, incrociandoli, escogitando scambi, e disegnando nella notte linee invisibili: i tragitti dei morti, i loro piccoli viaggi, il loro movimento.
Aveva capito perché sua moglie non gli rispondeva. In quella città tutto era fermo, immobile, congelato in un tempo che non si intersecava in nessun punto con quello suo e degli uomini vivi. La sua mente scientifica ne aveva dedotto che occorreva alterare in qualche modo quello status, increspare le acque di quello stagno ghiacciato, creare una dissimmetria in cui lui avrebbe potuto far valere la sua distinzione, il suo essere speciale, il suo privilegio: quello di parlare non con i morti, ma con lei, solo con lei, sua moglie. Era quella la distinzione che si era guadagnato, e la Macchina gli avrebbe permesso di avvalersene: lavorò duro e i lumini accesi gli davano come un senso di ebbrezza, il sudore gli si incollava sul collo, e il geniale sistema per spostare le bare con pochi leveraggi e ben oliati meccanismi gli permetteva di effettuare sforzi che nemmeno quattro uomini in forma perfetta avrebbero potuto sostenere.
Uscì alla chetichella il mattino dopo e una doccia e un riposo gli permisero di tornare la notte seguente e poi quella dopo e quella dopo ancora e infine si trovò pronto per andare da sua moglie.
Poggiò il cappello, si tolse gli occhiali, rassettò i fiori, seguì un merlo che saltellava guardandolo, e poi le chiese, esitante ma pieno di gioia: “Come stai oggi?”. Attese la risposta. Attese in silenzio. Ripetè la domanda, sempre quella, attese ancora, e guardò un po’ confuso gli agenti che venivano verso di lui seguiti dal custode che lo indicava con il dito, e a quegli estranei che gli facevano domande provò ad opporre anche lui –anche lui- un silenzio ostinato e poi in questura trovò più gentile dire qualcosa a quei signori che lo attorniavano e riaccompagnato a casa restò fermo dietro la porta, pensando.
Il giorno dopo una macchina lanciata contro un camion si schiantò in una nebbia leggera, che lasciava vedere il cielo così azzurro.
I giornali ipotizzarono tutti concordi e sbagliando tutti che Antonio Rocciolatto si fosse ucciso per la vergogna di una inchiesta per quei morti spostati. Nessuno aveva capito che oltre che geniale quell’uomo si sarebbe alla fine della sua vita dimostrato anche intrepido e razionale sino alle conseguenze ultime ed estreme. Non fu vergogna – e di che? Avrebbe detto con il suo mite sorriso-ma solo la constatazione che se la Macchina non era servita, se la sua distinzione non gli aveva permesso di ottenere ciò che più desiderava al mondo, allora ne derivava, indefettibile, la necessità di usare altri mezzi, un’altra macchina, una porta diversa, e nel precipitarsi contro quel benedetto ostacolo la sua domanda era già pronta.
LAMINE E SOGNI
Un sottile frammento di latta, poi un pezzo di rame, che brillava rosso nella mano come un fuoco segreto. Ricordava la sensazione di allora, poco più che bambino: di pulito, di concluso, di pefetto e il primo piacere: torcere piegare modellare poggiare su un oggetto più duro ed imitarne sommariamente la forma. E l’odore. A quei tempi non sapeva che i metalli non hanno odore, e ne aspirava un freddo ristoro nei pomeriggi bruciati da quel sole padano.
Fu così che Nicola Zamboni ignorando di essere uno scultore cominciò ad adorare le forme, e la replicazione infinita che l’universo gli offriva. A scuola seppe che esistevano uomini che di quella sua frenesia, di quella sua ansia di copia, avevano fatto un mestiere, forse una vocazione, obbedendo alla quale talvolta erano diventati famosi, più spesso erano rimasti ignorati da tutti; che delle cose che le loro mani avevano costruito si parlava come di opere, di oggetti il cui senso diventava argomento di storie, di interrogazioni, di stupore, di godimento.
Più grande vide ad una mostra che intorno alle sculture esposte i visitatori si fermavano e in alcuni di essi scorse nello sguardo il lampo di un riconoscimento, come se improvvisamente si trovassero davanti ad uno specchio, o a una finestra affacciata su un altro mondo, e decise che avrebbe fatto quello anche lui, sarebbe diventato uno scultore.
Ripensandoci, gli venne in mente quel motto di Nietzsche, posto in epigrafe a Ecce Homo: diventare ciò che si è. Ecco, si diceva, il compito più difficile per un uomo, non tradire sé stesso, e la grande casa nella campagna tra Bologna Modena e Ferrara, ingombra di attrezzi, lastre di metallo, banchi di lavoro, paranchi e, tra quella confusione spiccanti come frasi compiute percepite in mezzo al brusio, loro, le sculture, in diverse fasi di allestimento, quella casa gli sembrava non un porto di rifugio ma una base operosa da cui muovere incontro al mondo, in cui scambiare messaggi, discorsi, alimentare disegni, sostenere sfide.
Era vecchio e si sentiva giovane come quando stringeva la mano intorno a quelle lamine sottili, la luce così lenta dell’inverno padano gli si animava intorno in baluginii inaspettati, ed ora –ne era orgoglioso- splendeva intorno anche a quelle superfici difficili che tanti anni prima gli erano sembrate mute, fatte di materie più sorde: la terracotta, il marmo, il legno, tutto quello che aveva scoperto col tempo possedere dentro di sé la capacità di illuminare chi guarda.
Il suono gioioso del metallo gli era stato dato ascoltarlo e poi riprodurlo in quella sua furiosa epoca di apprendistato con Quinto Ghermandi, ma il resto, la lotta con la materia opaca, era frutto del suo testardo cercare e gli amici che aveva pazientemente rifatto, e le donne che aveva amato, e quella che amava adesso, se erano finiti tutti insieme ad animare un discorso ininterrotto riuniti in gruppo paziente in un giardino pubblico, se avevano avuto la forza di interpellare ogni giorno i passanti, era perché lui era stato capace di catturare la luce che li sfiorava trasformandola in domande:”chi sei?” chiedevano beffarde le grandi statue in terracotta di Pieve, “chi sono?” dicevano e il gioco dei riconoscimenti ricominciava ogni giorno.
Ma adesso era la volta dei sogni, e il sogno della notte appena trascorsa lo aveva chiamato all’impresa più difficile, pensava, e soppesava accarezzandole delle grandi lamine di bronzo, e il rosso gli imporporava la faccia. Come un tempo, ma non per tentare forme indecise, e neppure per costruire grandi figure, assemblando, unendo, completando, chiudendo. Adesso era per togliere, alleggerire, bucare, traforare, rendere vibranti e impalpabili le cose più semplici, quelle per cui solo alla fine di un lungo cammino ci si sente pronti, quelle la cui banale riconoscibilità domanda il rispetto dovuto al privilegio di essere vivi in un mondo così implacabilmente bello.
Come per un fiore, un’onda, la luna tra i rami. Si sarebbe pazientemente consacrato, per sempre, alle foglie.
2008, inedito
L'ECISTA
La città bianca circondata dai boschi che ricordava era sparita: colline sventrate vomitavano un fango argilloso, e una folla indescrivibile occupava una strada lungo il mare. Nulla era come doveva essere, pensava guardando i compagni interdetti e esitanti.
Si lanciò per primo, mentre dalle navi disposte a ventaglio, una ogni 100 metri, i guerrieri prendevano terra dispondendosi in file serrate e i flauti cominciavano a battere il tempo, e donne e bambini sulle spiagge battevano le mani indicando con gesti felici e sorpresi le vele rosse, i costumi bellissimi, gli scudi che lampeggiavano al sole. Si fece largo tra la folla, attese che lo raggiungesse un vecchio che indossava una specie di toga, parlarono tra loro brevemente: nel gruppo di donne che li attorniava Maria Siclari veniva da un paese in cui si parlava ancora greco e le parve di distinguere alcune parole, le sembravano strane eppure familiari, con troppe “e” , ma “anghelos” e “thanatos”, quelle le udì proprio. Messaggero, morte. Il consigliere comunale Brancati, di opposizione, si appoggiò alla balaustra sulla passeggiata a mare e prese a scrivere furiosamente sul retro del grattino che aveva in tasca il testo di una interrogazione urgente con risposta scritta su quell’iniziativa evidentemente organizzata a sorpresa dall’Assessore alla cultura. Adesso pareva che tutta la città fosse accorsa a vedere.
“Arrivano dal mare, come a Cervia!” disse rivolto agli amici un giovane, soddisfatto di far sapere a tutti che lui a Cervia non faceva solo il cameriere ma assisteva anche a spettacoli importanti, come quello teatrale che si ripeteva ogni anno sul lungomare.
L’ecista estrasse la spada dalla guaina: un “ooh!” di meraviglia si alzò dalla folla sorridente. Sorrideva anche lui. Diede un ultimo sguardo circolare sulla città orribile. E puzzava, anche; poi sempre sorridendo si diresse verso un gruppo di uomini cominciando a correre e lo attraversò sempre correndo facendo mulinare con grazia la spada: rotolò una testa, delle grida brevissime accompagnarono corpi che scivolavano a terra, un braccio, isolato, disegnò sulla sabbia un elegante ghirigoro, il rosso si insinuò tra le vesti grottesche dei caduti, e l’ecista era già sulla strada. Apprezzò l’improvviso silenzio, ed anche le urla stridule subito dopo. Senza bisogno di ordini i gruppi di guerrieri si rivolsero per primi contro gli assembramenti di uomini vestiti tutti allo stesso modo, pensando giustamente si trattasse di soldati. Cominciarono con quelli addobbati di nero, una striscia rossa sulle brache, e fu così che i locali carabinieri, tutti in servizio sul lungomare per il mercato del giovedì, vennero quasi completamente trucidati nei primi minuti. Nessuno riuscì a mettere neppure mano alle armi, e ci fu chi si fece docilmente tagliare la gola a bocca aperta per lo stupore. Un momento di confusione tra i guerrieri fu provocato dalle auto, ma ci misero poco a capire che bastava usare lo scudo per infrangere i vetri e tirare fuori le persone dentro come pesci da una nassa. I servi con le torce seguivano dappresso e trovarono con grande divertimento inesauribili esche per gli incendi che andavano appiccando: nessuna città conquistata così facilmente bruciava così bene.
Tra mucchi di cadaveri e il fuoco che divampava i guerrieri instancabili con ansiti brevi inseguivano e falciavano, inseguivano e atterravano. L’ecista si arrampicò dove ricordava una volta, in un altro tempo, in un altro mondo, che fosse il tempio di Era. Al suo posto una scatola enorme, sgraziata, intorno rifiuti, macerie, sporco ovunque: erano le proporzioni delle cose, a ferirlo, le dimensioni fuori scala, la numerosità, il troppo. I barbari si erano impossessati della sua città, ignari di armonia e bellezza.
La curiosità e l’ingegno di un greco sono inarrivabili: trovarono presto come rendere più veloce la distruzione completa. Della città non restò quasi nulla, degli abitanti solo quelli che erano fuggiti. Raccolsero le donne sulla spiaggia e ne scelsero le migliori. Schiave fortunate, avrebbero conosciuto la civiltà e la bellezza.
Il sacrificio della giovenca fu seguito da una rapida partenza. La bestia fu una macchia candida sulla rena grigia: e le navi nella caligine sfumarono una dietro l’altra, dirette ad altri ritorni.
2008, inedito
mercoledì 19 dicembre 2007
LA VERITA' DEI CONTI
Evita Peron
Una somma di esattezze non dà ancora come risultato una verità.
Ernst Jünger
A Giacomo Frittoli, ragioniere
“Ragioniere, ragioniere, non faccia così…”
L’uomo del nord si guardò attorno smarrito. Solo sorrisi incoraggianti e cenni di amichevole accondiscendenza. Tornò a fissare il Direttore, che prendeva appunti con aria indifferente, poi alzò lo sguardo su di lui, gli sorrise benevolo, agitò con pigra solerzia la capigliatura scomposta, si accomodò il nodo della cravatta e sospirò.
Citti, il responsabile del Bilancio, proseguì insinuante: “Vede, ragioniere, qui i conti non li controlla nessuno, le tabelle non le vedono proprio. Si soffermano sui segni più o meno di certe voci, e poi vanno subito a guardare il risultato finale, che è quello che conta. Se siamo in pareggio sono contenti, ma un po’ di dubbi gli restano. Un bel disavanzo è quello che ci vuole: modesto, e per questo credibile. Insomma senza esagerare.”
Nella piccola sala si adagiò un silenzio teso. La luce del sud sembrava trapassare i muri e gli schermi dei laptop aperti sul tavolo delle riunioni erano pallidi e sbiaditi. I numeri in filigrana come scritti su ostie parevano lontani e disposti a mutare pur di tornare in vita e acquisire consistenza.
E’ il dipinto finale che conta, la sua bellezza, pensava il Direttore, e i segni preparatori, la sinopia, quello che non si vede, conta poco; e si immerse nel ricordo dei quadri che amava, dimenticando l’uomo confuso che doveva assisterlo. Quella sorta di certificazione interna del bilancio, il primo importante che l’ASL da poco istituita doveva presentare, l’aveva chiesta lui, per incoraggiare al rigore e alla precisione nelle rilevazioni e nelle imputazioni ai vari centri di costo, per garantire un risultato veritiero e conforme ai principi della contabilità.
“Io lo farei grosso” intervenne Breda, del controllo di gestione. “Grosso che, mi scusi?” Il Direttore passò fulmineo ma infastidito dalle divagazioni su Domenico Piola e la scuola genovese alla riunione in corso.
“Un grosso disavanzo, ecco. Così facendo meglio potremo stare sotto dimostrando che abbiamo recuperato.”
Il consulente strabuzzò gli occhi: “Ma come meglio, ma come grosso?” e gli altri ma gli rimasero in gola. Lui aveva tenuto i conti della Bocconi, lui i numeri li sapeva usare e qualche volta piegare a strategie, piani, programmi, ma chiari, definiti, con tempi mezzi e obiettivi studiati con precisione. Qui non sapevano neanche cosa avrebbero fatto il mese dopo, e volevano aggiustare le previsioni.
“Perché?” aggiunse. “Perché taroccare il bilancio se non avete idea di di…”
“Su, ragioniere non faccia così” ripetè Nitti interrompendolo.
“Taroccare mi sembra un termine esagerato. Qui al sud non ha senso fare piani, si vive alla giornata, si fa quel che si può. Diciamo che con un bel disavanzo stiamo dalla parte del sicuro. E poi, mi scusi, le previsioni le facciamo partendo dai dati di consuntivo e quei dati lei sa meglio di me che sono imprecisi, incompleti.”
Il Direttore passò a contemplare la foto del suo cane sul cellulare, pensando che quell’ansia di precisione, di esattezza, quel bisogno di certezze era stato anche il suo, che dal nord avanzato ed efficiente era stato sicuro di trarre stimoli ed esempi utili, che arrivare alle sette in ufficio, due ore prima dei suoi dirigenti, gli era parso un mezzo garbato e convincente per mostrare a tutti come si deve governare una struttura complessa come quella. Guardò con affetto e rimpianto il ragioniere che veniva da lontano. Il cane gli sorrideva, la luce era immensa. Da fuori giungevano a tratti i gutturali e sgraziatissimi richiami dei ragazzi, che li facevano sembrare dei tedeschi. Tedeschi nazisti. Ma incazzati neri, e invece scherzavano. Al sud aveva scoperto che la realtà non è ambigua, ma plurima. Sono molte e tutte presenti, e di ognuna si può cercare la verità. Lo scetticismo è nato in Grecia e predicava non che la verità non esiste ma che ce ne sono troppe. Perché non scegliere quella più utile?
“Mondo fluttuante” disse.
“Prego?” ansimò interdetto il ragioniere.
“Un pittore giapponese dipingeva sempre le stesse cose. Sempre diverse. L’ASL è un mondo fluttuante in una realtà metamorfica. I numeri fluttuano. Il bilancio sono molti. Uno è più” concluse ermetico e involontariamente solenne il Direttore, scuotendo i riccioli bianchi.
Il consulente, gli occhi sbarrati, si alzò di scatto incespicando nel filo del computer. I numeri sullo schermo parvero danzare, poi sparirono. Una chiamata da Milano improvvisa. Un’emergenza, allegò borbottando. Doveva rientrare subito. Anche gli altri si alzarono. Il Direttore lo accompagnò alla porta e come faceva il Principe di Salina gli pose una mano amichevole sulla spalla nel mentre gli ripeteva mellifluo: “Si ricordi ragioniere. Mondo fluttuante”.
lunedì 17 dicembre 2007
ACHEI AD IKEA
Il 16 aprle 2004 alle ore 17 ad Atene un pomeriggio sonnolento cedeva il passo ad una serata chiara e ventosa: gli dei normalmente scontenti e corrucciati avevano strappato il velo che ogni mattina posavano sulla grande città bianca. Niente nefos, e una brezza che sapeva di mare e che accarezzava anche i campi della grande pianura tra il Pendeli e Maratona. Fu in quel momento che il signor Gunnar Elvstrom si alzò di botto, ancora più pallido di quanto già non fosse, gridando come un ossesso “Where is the police? Where? Wehre?”, e rovesciando la sedia girevole Joel. Ad ogni “where” ognuno più stridulo del precedente, dava un pugno sulla scrivania Gustav: prima saltò la lampada Brotorp, poi la cassettiera Alve. La sua segretaria Melina intervenne in controtempo con una serie ritmata di “Panaghiamu” mentre Teokrithos Ambelachis, il direttore di sede, indeciso tra il greco e l’inglese si orientò su uno scuotimento di testa con “Po, po” di deprecazione.
-L’avevo detto io che qui in Grecia non si poteva aprire una Ikea- aggiunse subito mentre lo svedese si avvolgeva nella tenda Vinde Slinga cercando di allontanare il rumore che saliva dal basso. Nella sala le ragazze che preparavano per il rinfresco ciangottavano a velocità supersonica in un crocchio che andava assumendo l’apparenza di un coro di tragedia: le loro divise nere ne facevano risaltare il gruppo indistinto come un’ombra mobile, proferente oscure ammonizioni tra lo sciabolare dei faretti e i lacerti vividi di renna e di salmone sulle tartine.
L’inaugurazione della prima Ikea in Grecia, vicino al nuovo aeroporto internazionale, era da mesi l’avvenimento dell’anno e quel giorno Katherimeri, il giornale più serio e compassato di tutta la stampa greca aveva dedicato la prima pagina a quell’ultimo tributo che la nazione offriva alla modernità e alle Olimpiadi alle porte.
Intanto il rumore si era trasformato in un ruggito potente, che scuoteva le pareti del grande magazzino: uno sguardo dalla finestra al piazzale, strapieno di una moltitudine per niente composta, fu sufficiente al rappresentante della sede centrale per farlo prorompere in singhiozzi, questa volta in svedese.
Le porte a vetri della zona di uscita e carico merci, progettate appunto per uscire e non per entrare, furono le prime a cedere, nonostante lì fosse scritto a lettere cubitali “exodos”, mentre l’”isodos”, l’ingresso, resisteva ancora.
-Faranno tutto a pezzi. Sono gli anarchici. L’avevo detto io, l’avevo detto io, una multinazionale qui- si lamentava il direttore.
L’urlo della folla adesso aveva un ritmo diverso, un tono ascendente, un battito più uniforme. Erano piedi che marcavano una specie di marcia lenta. Dal groviglio indistinto di rumori si dipanavano incitamenti, apparve all’improvviso in tutto il suo fulgore il battito antico degli anapesti.
Rintronava tutto, mentre la folla si prendeva per mano e formava righe serrate, Sinistra sulla sinistra la destra libera: era la falange che prendeva forma, la falange che aveva portato la Grecia vincitrice sui campi di battaglia, che a maratona, a pochi chilometri da lì aveva permesso di scompaginare un esercito immenso di barbari…
La sicurezza retrocedeva, la porta era ormai indifesa. Nell’atrio si immolarono le prime centinaia di giovani, presi a randellate e portati via dalla polizia che era accorsa in forze ma troppo tardi. Come il battaglione sacro di Epaminonda si sacrificarono sino all’ultimo per permettere agli altri di entrare.
Con alte grida gli impiegati si strinsero al direttore, certi di venire assaliti dalla folla che ormai sciamava tra i letti e le cucine, mentre tartine e birre, crostini di segale e polpettine in salsa volavano da tutte le parti.
Ma non appena distribuitisi ovunque il rumore si affievolì di colpo, la corsa si interruppe tra le scansie, la folla si ruppe in gruppi e poi in tanti tantissimi singoli: chi guardava gli oggetti, chi li toccava, chi provava a leggere le oscure parole di una lingua barbara ma amichevole.
Erano gli Achei che avevano ritrovato dopo duemila anni le vie di un nord lontano, erano le rotte dell’ambra che tornavano alla Grecia. Erano i Cimmeri venuti di nuovo a commerciare in quell’Attica solare.
2007, inedito
L’ESTATE DEI LEONI
No, non quelli del film con Marlon Brando. Ma giovani sì, e stronzi come ci si aspetta da chi scrive sui muri “io e te x sempre”.
Era l’estate cupa e irrimediabile dei tre metri sopra il cielo. Non si può incolpare lo specchio se ci rimanda una vista disgustosa? Senza dubbio, ma talvolta lo specchio dà forma e impulso e coscienza di esistere a ciò che va contrastato. Così quell’estate: il romanzo di Moccia sarebbe stato il meglio che non venisse scritto e se scritto che non venisse pubblicato; e se pubblicato che non venisse letto.
Invece di distribuire calci in culo o al peggio imbarchi gratuiti per missioni di pace in Iraq (ma andava bene anche l’Afganistan) si sopportò pazientemente che l’imbecillità dilagasse, che quell’impasto di violenza prevaricazione e bamboleggiamenti e sdilinquimenti continuasse senza opposizioni.
Una generazione quasi tutta persa, giovani che promettevano adulti inservibili per qualunque ricamo sociale, per qualunque scopo che trascendesse il puro sé. Quelli che là dove capitava non si srovesciavano, gli occhi improvvisamente sbarrati, per overdose, quelli che non aderivano come colla ai muri ai pali ai paracarri per incidente d’auto di moto di motorino, quelli che non impazzivano per il troppo fissare i telefonini , la mano destra inservibile ormai ad ogni altra funzione, lo sguardo perduto, ed un fiorire di borborigmi e grugniti che solo talvolta parevano interiezioni spezzate: insomma i rimasti, tantissimi lo stesso, quell’estate si aggiravano in branchi, in sciami, in greggi, con le discoteche, i lidi, i bagni le spiagge come luoghi di incontro e di tremenda “socializzazione”.
Fu l’estate del trionfo e della definitiva ascesa sociale dei cafoni, dei barbari, degli ignoranti. Cattivi o assenti maestri, musiche indimenticabili per la perversa oltraggiosa stupidità e quelle scritte che fiorivano in tutta Italia. C’era chi digrignava i denti a vedere “6 il mio amore”, chi si lanciava nel vuoto a sentire gli hit dell’estate, chi anelava all’apocalisse, chi invocava i più rigidi cultori della sharia, chi più semplicemente, avendo capito che la fine della nostra civiltà cosiddetta occidentale era per fortuna arrivata, aspettava paziente.
I segni c’erano tutti: la neve il 15 agosto in alta Valtaro, i turbini improvvisi e i fulmini, con regolare contorno di fulminati, l’improvviso aumento dei decapitati in mare (non per punizione salvifica e fil di spada ma per utilizzo demente di motoscafi e simili), e infine la finta eruzione con colata lavica e tremor di terra disposta da un ilare Berlusconi nel suo villone pacchiano.
Eppure ai più sfuggì un altro segno, opposto, un segno che retrospettivamente fu chiaro che annunciava un cambiamento, un mutamento di registro.
Furono i leoni a reagire. Non i veri, ma gli antichi. Quelli che vigilano in tante nostre chiese, reggendo da secoli colonne. I primi furono a Trani. Degli idioti avevano fatto bivacco del portico, bevendo birra e seminando lattine e incarti di pizza ed evidentemente non sazi del nulla pensarono bene di decapitare a martellate uno dei due leoni. Un episodio di normale inciviltà, di stolida insensibilità, eccetera eccetera, su cui i giornali locali andarono per giorni deprecando lamentando con santa indignazione.
La cosa singolare fu che due giorni dopo in un incidente stradale una solenne e impossibile dinamica dei diversi corpi in gioco produsse un effetto strabiliante: due teste decollate con precisione a due ragazzi che avevano bevuto, andavano in due su un motorino senza casco, e vennero successivamente identificati come quelli che avevano colpito il leone.
Poi fu a Sant’Agostino, sempre a Trani: un imbecille per ben figurare di fronte a una qualche ragazza (che si presume ridesse ebete e in sollucchero invece di strappargli le palle) disegnò per gioco delle lagrime sul muso del leone che ornava la porta. Il referto dei medici non fu chiaro, ma il ragazzo da allora non ha smesso di piangere, gli occhi arrossati e finalmente quasi inservibili.
Fu lo stesso a Nonantola: i leoni dell’Abbazia, il muso sfregiato dal solito imbecille, restituirono una implacabile dermatosi. E così in altre luoghi: i leoni antichi quell’estate attirarono i peggio incarogniti, quelli senza speranza, e li ripagarono in moneta sonante.
C’è chi ha parlato di coincidenze, chi di maledizioni degli antichi artigiani. Io non so dire, ma penso che i leoni abbiano improvvisamente deciso, tutti assieme, che era arrivata l’ora di una sana lezione di vita. Che era giusto far propria una massima rivoluzionaria, e che se gli adulti si tiravano indietro di fronte ai giovani loro avrebbero provveduto a colpirne alcuni per educarne molti.
2007, inedito