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martedì 6 gennaio 2009

RECENSIONE A "LA GUERRA CORSARA" DI GIORGIO PIETROSTEFANI

Giorgio Pietrostefani pubblicando La guerra corsara: forma estrema del libero commercio ha senza dubbio percorso un’altra tappa del suo cammino di riflessione sulle forme del capitalismo: sulla sua genesi, come attesta l’altro libro dedicato alla tratta degli schiavi ( La tratta atlantica. Genocidio e sortilegio, sempre uscito per Jaca Book nel 2000), ma anche sulle sue forme attuali ( Il sistema droga. Per capire le cause e punire di meno, uscito nel 1998). Ma il filo che lega i diversi temi è anche più evidente: non tanto le forme del capitalismo, ma quelle forme che sono legate al commercio, allo scambio, ai meccanismi ideologici della libertà del mercato. Che si tratti oggi di droga e ieri di schiavi o di “buone prede” conquistate da corsari, la sua attenzione si concentra sui processi di scambio e sul modo in cui i loro protagonisti ne vivono limiti condizioni e opportunità.
Nelle sue opere Pietrostefani ci ha abituato a titoli parlanti, come accadeva una volta. E il suo ultimo libro aggiunge un sottotitolo oltremodo esplicito, che dà piena ragione di quell’attenzione, mettendola anzi ostentatamente in primo piano: se la guerra corsara è la “forma estrema del libero commercio”, ecco confermata quella ipotesi di lettura e al tempo stesso quel percorso di studio e riflessione.
A una linearità così confortante, che in qualche modo retroagisce su quanto sappiamo della storia dell’autore (sul suo passato di leader nelle lotte studentesche, sulla sua trasfigurazione in dirigente d’azienda, sulla sua vicenda giudiziaria che improvvisamente devasta la normalità dei una vita qualunque con un emblematico ritorno del rimosso), trasformando ancora una volta Pietrostefani in un maturo signore che dopo una vita turbolenta si dedica a studi storici bisogna però opporre il sospetto fondato di impulsi e motivi niente affatto in sintonia con un taglio “accademico” che pure la sua ricerca possiede. Nell’ultimo libro una scrupolosa documentazione, una bibliografia accurata, una puntigliosa rassegna di fatti ed episodi contribuiscono ad avvalorare senza dubbio quel taglio.
Ma il sospetto rimane. Anzi la certezza, se diamo il giusto peso a quello che l’autore confessa nella premessa, quando dice che “tra i motivi di questo lavoro c’è anche un’irrazionale pulsione” che lo ha spinto a “trattare gli avvenimenti senza il necessario distacco”. Sono appunto “tutti quei pirati, corsari e bucanieri che hanno fatto sognare generazioni di ragazzi”.
Ecco dunque uno dei motivi impuri: sogni di ragazzi, forse quelli che danno vita alla letteratura. E mescolare storia e letteratura ( ma in un orto controllato: quello delle biografie) oggi si fa, però con il rischio di non produrre né l’una né l’altra, e di inimicarsi e gli storici e i critici letterari. Certo ci sono i grandi storici che sono grandi letterati perché “scrivono bene”: Braudel o Michelet ( e da noi, anche se ad opportuna distanza, un Giorgio Spini) ne sono rappresentanti illustri.
La cosa affascinante del libro di Pietrostefani è la noncuranza di tutto ciò: alla tesi interpretativa (che risulta di grande interesse come vedremo) accosta i fatti e le argomentazioni necessari a consolidarla con un procedere divagante e divertito, ma soprattutto meravigliato. Gli episodi si affastellano con le statistiche: descrizioni di battaglie e di scorrerie sono inframezzate da puntigliose tabelle con il valore delle prede e con le somme investite. La grande storia d’Europa rivive attraverso le poco note ripercussioni sulle città marinare, sui traffici marittimi, su quella “linea di confine” mobile e insicura in cui gli Stati ancora non avevano un potere indiscusso e pieno.Una storia vista dal mare, in cui anche i grandi episodi delle esplorazioni e delle scoperte si inseriscono nel gioco minuto degli interessi, dei commerci, delle appartenenze.
Dicevamo della tesi che attraversa il libro e riconduce ad unità le sue parti. Sui rapporti tra pirateria e meccanismi di accumulazione del capitale sono già state dette cose interessanti, con riferimento soprattutto al mondo antico. Pietrostefani però concentrando la sua attenzione sulla attività dei corsari scandaglia uno snodo decisivo per l’avvento del capitalismo moderno: lo snodo tra guerra, stato e commercio. Guerra perché i corsari esercitano legittimamente la loro attività solo ai danni di un nemico riconosciuto, stato perché essi esercitano una attività in “regime concessorio”, cioè su esplicita autorizzazione di una entità politica che non può che essere lo stato, commercio perché si tratta di una attività “privata”, svolta dagli stessi soggetti che in tempo di pace si presentano come mercanti.
Un incrocio di temi e suggestioni di grande importanza, che viene affrontato postulando un rapporto organico tra consolidarsi dello stato e delle sue forme organizzative e iniziativa privata. L’apporto forse più stimolante delle riflessioni di Pietrostefani non sta tanto nell’investigazione dello scontato effetto economico della guerra di corsa (basta pensare agli effetti di lungo periodo della sottrazione di imponenti ricchezze provenienti dall’America sulla Spagna), ma nella messa in luce e nella documentazione del rapporto di collaborazione , oggi si direbbe di partnership, tra privati e poteri pubblici.
E qui è forse opportuno dire qualcosa di più sul valore storiografico del lavoro di Pietrostefani. Della noncuranza poco accademica si è detto, e da quel procedere per accumulazione di episodi nasce una capacità di raccontare interessare e avvincere la cui parentela con la letteratura è cosa che salta agli occhi ad una prima lettura. Però non sfugge ad un esame più attento la portata innovativa di quel mettere in relazione cose che normalmente gli storici trattano separatamente, nell’ambito di specialismi ben codificati: da una parte gli storici della navigazione e delle scoperte, quelli delle istituzioni marittime (è ben nota l’importanza del commercio marittimo nella modellazione di istituti giuridici e forme organizzative che hanno poi investito il resto della società), dall’altra quelli della “grande storia”. Questa capacità di “leggere i legami” permette ad esempio a Pietrostefani di illuminare meglio di quanto non si faccia normalmente il senso di quella “libertà olandese” che costituisce ancora oggi un problema storiografico aperto, tracciandone i rapporti con lo spirito di indipendenza della gente di mare e con l’insofferenza nei confronti di vincoli al commercio che avrebbe portato prima i “pezzenti del mare” a dare un contributo decisivo alla lotta contro la Spagna e poi a dare veste ideologica alla libertà conquistata.
Sin qui però nulla di veramente nuovo. Per capire il senso dello sguardo diverso sulla storia che Pietrostefani ci invita a dare bisogna tener presente innanzitutto che il libro è dedicato non alla guerra di corsa in genere, ma a quella esercitata sugli oceani. Insomma non si parla del Mediterraneo dove pure i corsari hanno spadroneggiato sino all’inizio del XIX secolo, e dove hanno dato vita a forme statali (gli stati barbareschi) assolutamente originali. Si parla degli oceani perché la storia moderna inizia lì: con la mondializzazione che per la prima volta consentiva di effettuare scambi (non solo di merci) a livello planetario, e con la conseguente formazione degli stati moderni, Francia e Inghilterra in primo luogo, che dagli oceani hanno tratto non solo ricchezze, ma capacità di “proiezione all’esterno”, e nuove forme amministrative e giuridiche (nulla come una flotta oceanica- e Pietrostefani lo spiega benissimo- richiede burocrazia efficiente, contabilità ineccepibile, mezzi finanziari imponenti, logistica inappuntabile e disponibile su scala mondiale: scali, cantieri, basi), ponendo le basi del sistema coloniale dei grandi imperi.
Lo snodo allora tra guerra commercio stato e iniziativa privata è appunto quello che ha dato forma al mondo quale sostanzialmente lo viviamo oggi. E’ un “sistema” che ci si dispiega davanti man mano che si procede nella lettura: allora i “pirati della regina”, i Drake, gli Hawkins, non sono più i profittatori, geniali quanto si voglia, di una politica incerta e altalenante (quella della regina Elisabetta nei confronti della Spagna), ma gli strumenti di una strategia che andava delineandosi di alleanza tra le forze mercantili e lo stato ancora medievale per far nascere il nuovo che premeva: uno stato moderno, appunto, con la sua flotta da guerra e il suo “impero” e quella cosa che poi abbiamo imparato a chiamare capitalismo. I corsari contribuivano da una parte ad una accumulazione primitiva con mezzi formalmente legali, dall’altra rafforzavano lo stato nella sua organizzazione e nella sua proiezione di potenza.
Ed ecco che diventa attuale anche il tema della “collaborazione pubblico-privato”: chi avrebbe detto che un argomento così di moda oggi (con quelli correlati della flessibilità, dell’outsourcing etc.) trovasse il suo fondamento in esperienze così ben strutturate e così lontane nel tempo?
Pietrostefani (forse sornionamente) documenta questo aspetto in maniera impressionante: gli apporti di capitale, le forme di gestione, l’utilizzo delle “risorse umane”: flessibilità voleva ad esempio dire, per gli equipaggi, disciplina meno severa, partecipazione agli utili, temporaneità degli ingaggi, passaggio senza formalità dal lavoro su un bastimento da carico o su un peschereccio a quello su una nave (spesso la stessa) armata per la guerra di corsa.
Pietrostefani si spinge sino ad esaminare, agganciandola al filo del ragionamento complessivo, la nascita dei primi “stati privati”, quelli cioè gestiti, sempre in regime di concessione, dalle Compagnie costituite originariamente per il commercio oceanico, e poi trasformatesi in vere e proprie strutture politiche, di cui l’esempio più noto è quello della Compagnia delle Indie, con il suo esercito, la sua flotta, e naturalmente il suo governo.
Se pensiamo di nuovo ai motivi di questo percorso di riflessione intrapreso dall’autore forse dobbiamo aggiungere, a questo punto, a quella confessata ammirazione per lo spirito di libertà e d’avventura che pirati e corsari hanno saputo suscitare non solo tra i ragazzi, una preoccupazione più attuale, che salda la sua attività di studioso oggi a quella, ieri, di dirigente politico.
Ragionare sul capitalismo e sulle forme del commercio, anche a partire dalla guerra di corsa, significa infatti ragionare sull’oggi, sui cambiamenti che stiamo vivendo ma anche su quello che permane immutato: e non sono tanto alcune “spie” terminologiche (l’uso di termini connotati politicamente quali “aristocrazia operaia”, “lotta di liberazione” etc.) che ci confermano in questo nuovo sospetto, ma proprio l’impianto dell’opera, quel suo mettere in relazione cose diverse sullo sfondo di una globalizzazione che nasce e si impone e cambia per sempre il mondo.
Nulla di più falso dell’imperturbabilità dello storico. Arnaldo Momigliano presentando la capitale opera di Ronald Syme sulla rivoluzione romana, terminata nell’estate del 1939, diceva che “il libro afferrava il lettore, stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, tra la conquista del potere di augusto e il colpo di stato di Mussolini”. Questa capacità di farci leggere in filigrana il presente Pietrostefani ce l’ha tutta. Non basta certo a fare un grande storico, ma il suo contributo è di quelli destinati a restare.

Pubblicato su Aprile, 2004