PIEVE

PIEVE
POLAROID

mercoledì 19 dicembre 2007

LA VERITA' DEI CONTI

Y el mundo, a la mejor, apartenece a los contables.
Evita Peron
Una somma di esattezze non dà ancora come risultato una verità.
Ernst Jünger

A Giacomo Frittoli, ragioniere

“Ragioniere, ragioniere, non faccia così…”
L’uomo del nord si guardò attorno smarrito. Solo sorrisi incoraggianti e cenni di amichevole accondiscendenza. Tornò a fissare il Direttore, che prendeva appunti con aria indifferente, poi alzò lo sguardo su di lui, gli sorrise benevolo, agitò con pigra solerzia la capigliatura scomposta, si accomodò il nodo della cravatta e sospirò.
Citti, il responsabile del Bilancio, proseguì insinuante: “Vede, ragioniere, qui i conti non li controlla nessuno, le tabelle non le vedono proprio. Si soffermano sui segni più o meno di certe voci, e poi vanno subito a guardare il risultato finale, che è quello che conta. Se siamo in pareggio sono contenti, ma un po’ di dubbi gli restano. Un bel disavanzo è quello che ci vuole: modesto, e per questo credibile. Insomma senza esagerare.”
Nella piccola sala si adagiò un silenzio teso. La luce del sud sembrava trapassare i muri e gli schermi dei laptop aperti sul tavolo delle riunioni erano pallidi e sbiaditi. I numeri in filigrana come scritti su ostie parevano lontani e disposti a mutare pur di tornare in vita e acquisire consistenza.
E’ il dipinto finale che conta, la sua bellezza, pensava il Direttore, e i segni preparatori, la sinopia, quello che non si vede, conta poco; e si immerse nel ricordo dei quadri che amava, dimenticando l’uomo confuso che doveva assisterlo. Quella sorta di certificazione interna del bilancio, il primo importante che l’ASL da poco istituita doveva presentare, l’aveva chiesta lui, per incoraggiare al rigore e alla precisione nelle rilevazioni e nelle imputazioni ai vari centri di costo, per garantire un risultato veritiero e conforme ai principi della contabilità.
“Io lo farei grosso” intervenne Breda, del controllo di gestione. “Grosso che, mi scusi?” Il Direttore passò fulmineo ma infastidito dalle divagazioni su Domenico Piola e la scuola genovese alla riunione in corso.
“Un grosso disavanzo, ecco. Così facendo meglio potremo stare sotto dimostrando che abbiamo recuperato.”
Il consulente strabuzzò gli occhi: “Ma come meglio, ma come grosso?” e gli altri ma gli rimasero in gola. Lui aveva tenuto i conti della Bocconi, lui i numeri li sapeva usare e qualche volta piegare a strategie, piani, programmi, ma chiari, definiti, con tempi mezzi e obiettivi studiati con precisione. Qui non sapevano neanche cosa avrebbero fatto il mese dopo, e volevano aggiustare le previsioni.
“Perché?” aggiunse. “Perché taroccare il bilancio se non avete idea di di…”
“Su, ragioniere non faccia così” ripetè Nitti interrompendolo.
“Taroccare mi sembra un termine esagerato. Qui al sud non ha senso fare piani, si vive alla giornata, si fa quel che si può. Diciamo che con un bel disavanzo stiamo dalla parte del sicuro. E poi, mi scusi, le previsioni le facciamo partendo dai dati di consuntivo e quei dati lei sa meglio di me che sono imprecisi, incompleti.”
Il Direttore passò a contemplare la foto del suo cane sul cellulare, pensando che quell’ansia di precisione, di esattezza, quel bisogno di certezze era stato anche il suo, che dal nord avanzato ed efficiente era stato sicuro di trarre stimoli ed esempi utili, che arrivare alle sette in ufficio, due ore prima dei suoi dirigenti, gli era parso un mezzo garbato e convincente per mostrare a tutti come si deve governare una struttura complessa come quella. Guardò con affetto e rimpianto il ragioniere che veniva da lontano. Il cane gli sorrideva, la luce era immensa. Da fuori giungevano a tratti i gutturali e sgraziatissimi richiami dei ragazzi, che li facevano sembrare dei tedeschi. Tedeschi nazisti. Ma incazzati neri, e invece scherzavano. Al sud aveva scoperto che la realtà non è ambigua, ma plurima. Sono molte e tutte presenti, e di ognuna si può cercare la verità. Lo scetticismo è nato in Grecia e predicava non che la verità non esiste ma che ce ne sono troppe. Perché non scegliere quella più utile?
“Mondo fluttuante” disse.
“Prego?” ansimò interdetto il ragioniere.
“Un pittore giapponese dipingeva sempre le stesse cose. Sempre diverse. L’ASL è un mondo fluttuante in una realtà metamorfica. I numeri fluttuano. Il bilancio sono molti. Uno è più” concluse ermetico e involontariamente solenne il Direttore, scuotendo i riccioli bianchi.
Il consulente, gli occhi sbarrati, si alzò di scatto incespicando nel filo del computer. I numeri sullo schermo parvero danzare, poi sparirono. Una chiamata da Milano improvvisa. Un’emergenza, allegò borbottando. Doveva rientrare subito. Anche gli altri si alzarono. Il Direttore lo accompagnò alla porta e come faceva il Principe di Salina gli pose una mano amichevole sulla spalla nel mentre gli ripeteva mellifluo: “Si ricordi ragioniere. Mondo fluttuante”.
2007, inedito

martedì 18 dicembre 2007

Le immagini di Aldo Garzia

Le immagini di Aldo Garzia ci costringono un po’ provocatoriamente a misurarci con alcune domande che pensavamo di aver consegnato al passato, riposte nel gran libro dedicato ai rapporti tra fotografia e realtà: rapporto ambiguo, come si sa, intessuto di falsa oggettività al punto di farci sospettare subito, sin dal primo sguardo, a sensi riposti, a inquadrature in cui la scelta dell’angolo di ripresa e della porzione di visibile, della luce e del tipo di pellicola, proclamano a gran voce una intenzionalità cui oggi nessuno rinuncerebbe.
Tutto vero. Eppure non è tutto. Ci sono delle occasioni in cui l’oggetto ritratto rivendica con più forza del solito quel suo diritto ad una verità impersonale che agli albori della fotografia si pensava ingenuamente costituisse il tratto distintivo della nuova tecnica. E’ il caso dei paesaggi, in cui l’ambiente, pur ritagliato artificiosamente da scelte del fotografo, si impone comunque come protagonista dotato di una sua “verità” in qualche modo non controvertibile. Lo è più ancora il caso dell’immagine destinata a fungere da illustrazione di un testo o di un discorso.
Le foto di Aldo Garzia dedicate all’isola di Bergman parrebbero dunque rientrare in quel paradigma, in cui l’abilità del fotografo sta tutta nel non farsi vedere, nel lasciar trasparire il reale meglio che si può attraverso quella povera e limitante impressione chimica su un piccolo supporto piano. L’isola ci appare nei suoi diversi aspetti, in un momento dell’anno (l’estate) ben determinato, con una luce meridiana che è quella che ci permette meglio di apprezzare i particolari senza perdere di vista il contesto, appunto il valore di “paesaggio”.
Poiché le immagini si pongono come apparato descrittivo di una mostra su Bergman e sull’isola (il luogo non solo del suo laboratorio mentale ma anche di alcuni suoi film), in cui figura come set ora claustrofobico ora aperto e luminoso, esse rafforzano e confermano un senso complessivo di cui si pongono al servizio, e il miglior complimento a Garzia è quello di essere riuscito con grande umiltà a realizzare questo aggancio: che dire infatti di un fotografo che rinuncia consapevolmente agli effetti straordinari offerti da quell’ambiente di rocce frastagliate, di sassi, di ombre e riflessi?
Già solo usare il bianco e nero avrebbe prodotto una lettura tutta diversa. La controprova sta nelle immagini dell’isola che compaiono in Persona, in cui Sven Nykvist, grandissimo direttore della fotografia, alterna a campi lunghi sulla spiaggia, di tono descrittivo anche se immersi in una luce inquietante, inserti di straordinario valore figurativo di particolari (i sassi, ad esempio), il tutto in un bianco e nero che trasfigura persone e cose. E sarà sua di nuovo, qualche anno dopo, la fotografia di Fårödocument, dedicato all’isola.
Eppure, nonostante non possa negarsi questo riuscito sforzo di porsi al servizio del suo oggetto, in modo da fornire una descrizione attendibile e veritiera di un luogo la cui carica simbolica sta allo spettatore della mostra di ricostruire incrociando le diverse informazioni fornitegli, rimane un dubbio: un dubbio alimentato proprio da questa correttezza così insistita, il dubbio che non sia l’isola l’oggetto delle immagini ma lo stesso Bergman.Aldo Garzia, che ama con passione il suo cinema, che altro ha fatto se non offrirci delle immagini in soggettiva dell’isola vista dal regista? E’ il mare che compare ossessivamente, sono quelle spiagge, e nulla del resto: quello che attirò precisamente Bergman in quel luogo, quello che lo fece sentire scelto, che lo costrinse a edificare una casa e rifugiarvisi non appena poteva. Ecco allora che l’angolo e l’altezza di ripresa, la scena inquadrata, tutto riconduce al suo sguardo da lontano, perso nel mare, e improvvisamente quelle spiagge ci restituiscono la carica di ambiguità che gliele ha fatte amare e scegliere per i suoi film. Il fotografo impassibile non è così distante da Nykvist che in Persona non ci fa capire se lo straordinario ambiente marino che si vede ogni tanto e che spesso si immagina vicino rimanda ad un angolo appartato del mediterraneo (il sole, la luce la vegetazione ce lo fanno pensare) oppure a un nord freddo e feroce. Le foto di Garzia ci descrivono una Delo pietrosa, una Sardegna di granito, una ultima Thule. Come Elisabeth Vogler, l’attrice impersonata da Liv Ullmann in Persona, Aldo Garzia si insinua nell’inquadratura dal basso per fotografare il mondo di Bergman.

Saggio comparso su Faro, l'isola di Bergman, Minerva editore, 2000

Serena Vitale - Il bottone di Puskin

“Questo su e giù da topo della vita…”
Puskin


Perché è morto Puskin? Chi lo indusse al duello in cui venne ucciso? Fu un complotto? Lo zar voleva eliminare il poeta scomodo? Poche centinaia di pagine di sicuro non bastano a ricostruire con certezza i fatti così controversi. E quel bottone slacciato è una metafora o una dimenticanza? Il libro della Vitale orchestra con grande maestria episodi diversi, incontri, brani di lettere, diari, documenti di ogni genere estratti da archivi sapientemente interrogati, tutti disposti in controcanto alla vita di società della Russia degli anni trenta dell’ottocento: balli, ricevimenti, salotti, gite in slitta, amori, intrighi. Si dovrebbe dire un affresco memorabile, al cui centro campeggia il poeta tanto amato dai suoi contemporanei e dall’autrice, e da cui dovremmo ricavare il senso di una vita segnata, di un tragico destino. Ma inoltrandosi nell’intrico dei fatti, tra i tanti nomi di personaggi che hanno depositato nella storia solo le tracce di quel fugace incontro con un grande poeta per essere poi di nuovo inghiottiti nel nulla di un cieco passato, in un insistito esercizio della indiscrezione che guarda da dietro le porte, che spia e registra i motivi nascosti –l’avidità degli uni, il bisogno di denaro degli altri, la gelosia o la voglia di rivalsa di molti, la piccineria di tutti, le frustrazioni della vita quotidiana- ecco che va configurandosi, la narrazione, come un pretesto, in cui Puskin scompare per fare posto all’insensatezza della vita.
E’ lo stupido e impassibile mortaio in cui si pestano e si riducono a polvere le storie individuali, in cui si prepara il nulla che azzera le intenzioni, i progetti, le aspirazioni di tutti, principi, condottieri, scrivani, poeti, belle donne. Non è più di Puskin che si parla, ma di noi, anche se quel pretesto così evocato resta non voluto ma subito. La devozione di Vitale al suo poeta traluce nella faticata ricostruzione degli avvenimenti come un patetico memento, continuamente contraddetto da un esito che gli fa torto, che consegna Puskin al gioco del caso e gli toglie anche il riconoscimento di una presa di senso attraverso la morte così a lungo cercata. Una morte che doveva suggellare con una direzionalità esemplare la sua vita di poeta viene ascritta al gioco perverso di uno scimunito e di una sventata, e retrocessa, nei fatti, da destino a volgare inciampo.
Diventare finalmente quel che si è, come sapeva troppo bene Nietzsche, è un esercizio che impegna tutta la vita, e dei grandi poeti si dovrebbe solo trovare e dipanare quel filo che riscatta per noi tutti il nulla che ci mastica impassibile. Quel filo sono le opere e, talvolta, esse prevedono e pretendono una morte significativa, quella di Byron a Missolungi, quella di Shelley con il suo Ariel, quella di Puskin in duello.
Tacere, al massimo accennare: ci sono dei casi in cui il velo sulle cose fa vedere tutto, fa vedre meglio.

Adelphi

Edoardo Sanguineti - Come si diventa materialisti storici?

Ecco un libro che un critico letterario non dovrebbe recensire. Solo apparentemente, però. Si tratta infatti a prima vista di un manuale, che con l’uso della lingua a fini espressivi non sembrerebbe aver nulla a che fare. Diventare materialisti storici con le chiare istruzioni dell’autore è una cosa facilissima, non più che diventare vegetariani o imparare a fare ogni riparazione in casa. Certo, si tratta di una cosa diversa, ma solo perché particolarmente chic, un po’ come imparare a pescare con la mosca: roba per pochi intenditori. Basta cercare un proletario e farselo amico, imparare a memoria la prefazione del 67 di Lukàcs al suo Storia e coscienza di classe, citare in francese Sartre e farsi cofanate di Moravia vomitando e rileggendolo compulsivamente sino a che cominciate a sentire la coscienza di classe farsi strada nell’emisfero sinistro del vostro cervello. Installata la coscienza di classe il più è fatto e voi siete già dei materialisti storici in formazione. Il libro non manca di dare utili consigli sulla manutenzione della coscienza di classe, che richiede episodiche e non troppo intense letture di Brecht e Benjamin, alternate a spruzzate di Gramsci (senza esagerare).
Ma Sanguinati è stato un grande poeta del Gruppo 63, e critico e storico della letteratura. Ecco dunque che ad un esame più approfondito il concatenarsi delle argomentazioni, i ricordi della giovinezza a Torino, e lo stesso stile piano e non ricercato, l’andamento un po’ divagato che rimanda ad una conversazione tra amici in una scuola di partito, il delizioso elogio del comunismo, disegnano un controtesto che non tarda ad apparire: si tratta di una lunga poesia mascherata da manuale che mima una lezione di storia del pensiero. Una struggente palinodia in cui la poesia si annulla nella vita che scorre e di questo nulla si alimenta per tratteggiare con rimpianto le piccole cose che abbiamo amato: gli operai, il comunismo, la contraddizione, l’autocritica, la sovrastruttura, l’ideologia e via dicendo. In un gozzaniano bric-à-brac appaiono in controluce le sezioni, Vie nuove, il compagno segretario che tira le conclusioni, la distribuzione dell’Unità la domenica, la festosa primavera del 45. La chiusa di questa lunga poesia, che sapientemente ricalca la struttura delle Odi di Orazio, è dedicata all’odio di classe, e con un piglio degno del grande Villon ci ammonisce ad esercitare la santa virtù della sgarbatezza: “occorre essere sgarbati, sgarbati, sgarbati e carichi di odio nei confronti di coloro che non appartengono al proletariato”. Di fronte a questi versi il dire trema: e non ci sono più parole.

Manni, 6 euro

lunedì 17 dicembre 2007

Civetta - Marco Pellizzola

A Lucio

I

Se il caso non esiste

-come ripetevi impassibile

quando lo stesso pensiero

ci pensava- 

se erano pura allegria

gli incontri e la stanchezza

di vivere che pure

dottissimamente argomentavi

svaniva dietro

una gioia primitiva e se

quella smania che lenivi,

tu ottuso siciliano,


quella mia intendo,

che mi brucia, diventava  

argomento di riso sarcasmo

e parole in festa,

allora è vero

questa mia pace 

e il ridere che faccio

a pensarti morto

questo scherzo bellissimo

e crudele

sono la prova 

che mi infastidisci e mi rallegri ancora.


II

Hai vinto tu

e rinnego le pazienti lettere

che abbondavano in giudizi

poiché sgusciando con eleganza

dalla vita, hai lasciato me

scomposto a dimenarmi


nel tempo impietoso

che deridevi tanto.


III

C’era un odore, cioè era

sentito;

c’era un suono, cioè era 

udito;

c’eri tu, cioè eri vissuto.

Se il vecchio filosofo

aveva detto bene

quello stare

insieme, ora,

cos’è?


IV

Volevo dirti come sta il roseto

e il pesce che hai mancato.

E’ urgente. Da un angolo

di Grecia così perduto

mentre l’aranceto

tutto insieme stinge

e tarda Skyros ad apparire

solo questo importa e dei sogni

che facemmo insieme se resta

poco, è tanto tuttavia

averceli scambiati

con allegra noncuranza.


V

Io li chiamavo, tu li fornivi

quei momenti così pieni d’essere

da rendere muti per la conclusiva

forza della vita. 

Scambio, parole, risa e silenzi

tutto aderiva a quel simulacro

di società diversa

che negli anni migliori

tu sapevi costringerci a pensare

ed erano dunque

di fondazione i riti

che officiavi

nell’osteria di Stelio,

tra noi distratti ed incantati.


2004, inedita 

ACHEI AD IKEA

Il 16 aprle 2004 alle ore 17 ad Atene un pomeriggio sonnolento cedeva il passo ad una serata chiara e ventosa: gli dei normalmente scontenti e corrucciati avevano strappato il velo che ogni mattina posavano sulla grande città bianca. Niente nefos, e una brezza che sapeva di mare e che accarezzava anche i campi della grande pianura tra il Pendeli e Maratona. Fu in quel momento che il signor Gunnar Elvstrom si alzò di botto, ancora più pallido di quanto già non fosse, gridando come un ossesso “Where is the police? Where? Wehre?”, e rovesciando la sedia girevole Joel. Ad ogni “where” ognuno più stridulo del precedente, dava un pugno sulla scrivania Gustav: prima saltò la lampada Brotorp, poi la cassettiera Alve. La sua segretaria Melina intervenne in controtempo con una serie ritmata di “Panaghiamu” mentre Teokrithos Ambelachis, il direttore di sede, indeciso tra il greco e l’inglese si orientò su uno scuotimento di testa con “Po, po” di deprecazione.

-L’avevo detto io che qui in Grecia non si poteva aprire una Ikea- aggiunse subito mentre lo svedese si avvolgeva nella tenda Vinde Slinga cercando di allontanare il rumore che saliva dal basso. Nella sala le ragazze che preparavano per il rinfresco ciangottavano a velocità supersonica in un crocchio che andava assumendo l’apparenza di un coro di tragedia: le loro divise nere ne facevano risaltare il gruppo indistinto come un’ombra mobile, proferente oscure ammonizioni tra lo sciabolare dei faretti e i lacerti vividi di renna e di salmone sulle tartine.

L’inaugurazione della prima Ikea in Grecia, vicino al nuovo aeroporto internazionale, era da mesi l’avvenimento dell’anno e quel giorno Katherimeri, il giornale più serio e compassato di tutta la stampa greca aveva dedicato la prima pagina a quell’ultimo tributo che la nazione offriva alla modernità e alle Olimpiadi alle porte.

Intanto il rumore si era trasformato in un ruggito potente, che scuoteva le pareti del grande magazzino: uno sguardo dalla finestra al piazzale, strapieno di una moltitudine per niente composta, fu sufficiente al rappresentante della sede centrale per farlo prorompere in singhiozzi, questa volta in svedese.

Le porte a vetri della zona di uscita e carico merci, progettate appunto per uscire e non per entrare, furono le prime a cedere, nonostante lì fosse scritto a lettere cubitali “exodos”, mentre l’”isodos”, l’ingresso, resisteva ancora.

-Faranno tutto a pezzi. Sono gli anarchici. L’avevo detto io, l’avevo detto io, una multinazionale qui- si lamentava il direttore.

L’urlo della folla adesso aveva un ritmo diverso, un tono ascendente, un battito più uniforme. Erano piedi che marcavano una specie di marcia lenta. Dal groviglio indistinto di rumori si dipanavano incitamenti, apparve all’improvviso in tutto il suo fulgore il battito antico degli anapesti.

Rintronava tutto, mentre la folla si prendeva per mano e formava righe serrate, Sinistra sulla sinistra la destra libera: era la falange che prendeva forma, la falange che aveva portato la Grecia vincitrice sui campi di battaglia, che a maratona, a pochi chilometri da lì aveva permesso di scompaginare un esercito immenso di barbari…

La sicurezza retrocedeva, la porta era ormai indifesa. Nell’atrio si immolarono le prime centinaia di giovani, presi a randellate e portati via dalla polizia che era accorsa in forze ma troppo tardi. Come il battaglione sacro di Epaminonda si sacrificarono sino all’ultimo per permettere agli altri di entrare.

Con alte grida gli impiegati si strinsero al direttore, certi di venire assaliti dalla folla che ormai sciamava tra i letti e le cucine, mentre tartine e birre, crostini di segale e polpettine in salsa volavano da tutte le parti.

Ma non appena distribuitisi ovunque il rumore si affievolì di colpo, la corsa si interruppe tra le scansie, la folla si ruppe in gruppi e poi in tanti tantissimi singoli: chi guardava gli oggetti, chi li toccava, chi provava a leggere le oscure parole di una lingua barbara ma amichevole.

Erano gli Achei che avevano ritrovato dopo duemila anni le vie di un nord lontano, erano le rotte dell’ambra che tornavano alla Grecia. Erano i Cimmeri venuti di nuovo a commerciare in quell’Attica solare.

2007, inedito

L’ESTATE DEI LEONI

No, non quelli del film con Marlon Brando. Ma giovani sì, e stronzi come ci si aspetta da chi scrive sui muri “io e te x sempre”.

Era l’estate cupa e irrimediabile dei tre metri sopra il cielo. Non si può incolpare lo specchio se ci rimanda una vista disgustosa? Senza dubbio, ma talvolta lo specchio dà forma e impulso e coscienza di esistere a ciò che va contrastato. Così quell’estate: il romanzo di Moccia sarebbe stato il meglio che non venisse scritto e se scritto che non venisse pubblicato; e se pubblicato che non venisse letto.

Invece di distribuire calci in culo o al peggio imbarchi gratuiti per missioni di pace in Iraq (ma andava bene anche l’Afganistan) si sopportò pazientemente che l’imbecillità dilagasse, che quell’impasto di violenza prevaricazione e bamboleggiamenti e sdilinquimenti continuasse senza opposizioni.

Una generazione quasi tutta persa, giovani che promettevano adulti inservibili per qualunque ricamo sociale, per qualunque scopo che trascendesse il puro sé. Quelli che là dove capitava non si srovesciavano, gli occhi improvvisamente sbarrati, per overdose, quelli che non aderivano come colla ai muri ai pali ai paracarri per incidente d’auto di moto di motorino, quelli che non impazzivano per il troppo fissare i telefonini , la mano destra inservibile ormai ad ogni altra funzione, lo sguardo perduto, ed un fiorire di borborigmi e grugniti che solo talvolta parevano interiezioni spezzate: insomma i rimasti, tantissimi lo stesso, quell’estate si aggiravano in branchi, in sciami, in greggi, con le discoteche, i lidi, i bagni le spiagge come luoghi di incontro e di tremenda “socializzazione”.

Fu l’estate del trionfo e della definitiva ascesa sociale dei cafoni, dei barbari, degli ignoranti. Cattivi o assenti maestri, musiche indimenticabili per la perversa oltraggiosa stupidità e quelle scritte che fiorivano in tutta Italia. C’era chi digrignava i denti a vedere “6 il mio amore”, chi si lanciava nel vuoto a sentire gli hit dell’estate, chi anelava all’apocalisse, chi invocava i più rigidi cultori della sharia, chi più semplicemente, avendo capito che la fine della nostra civiltà cosiddetta occidentale era per fortuna arrivata, aspettava paziente.

I segni c’erano tutti: la neve il 15 agosto in alta Valtaro, i turbini improvvisi e i fulmini, con regolare contorno di fulminati, l’improvviso aumento dei decapitati in mare (non per punizione salvifica e fil di spada ma per utilizzo demente di motoscafi e simili), e infine la finta eruzione con colata lavica e tremor di terra disposta da un ilare Berlusconi nel suo villone pacchiano.

Eppure ai più sfuggì un altro segno, opposto, un segno che retrospettivamente fu chiaro che annunciava un cambiamento, un mutamento di registro.

Furono i leoni a reagire. Non i veri, ma gli antichi. Quelli che vigilano in tante nostre chiese, reggendo da secoli colonne. I primi furono a Trani. Degli idioti avevano fatto bivacco del portico, bevendo birra e seminando lattine e incarti di pizza ed evidentemente non sazi del nulla pensarono bene di decapitare a martellate uno dei due leoni. Un episodio di normale inciviltà, di stolida insensibilità, eccetera eccetera, su cui i giornali locali andarono per giorni deprecando lamentando con santa indignazione.

La cosa singolare fu che due giorni dopo in un incidente stradale una solenne e impossibile dinamica dei diversi corpi in gioco produsse un effetto strabiliante: due teste decollate con precisione a due ragazzi che avevano bevuto, andavano in due su un motorino senza casco, e vennero successivamente identificati come quelli che avevano colpito il leone.

Poi fu a Sant’Agostino, sempre a Trani: un imbecille per ben figurare di fronte a una qualche ragazza (che si presume ridesse ebete e in sollucchero invece di strappargli le palle) disegnò per gioco delle lagrime sul muso del leone che ornava la porta. Il referto dei medici non fu chiaro, ma il ragazzo da allora non ha smesso di piangere, gli occhi arrossati e finalmente quasi inservibili.

Fu lo stesso a Nonantola: i leoni dell’Abbazia, il muso sfregiato dal solito imbecille, restituirono una implacabile dermatosi. E così in altre luoghi: i leoni antichi quell’estate attirarono i peggio incarogniti, quelli senza speranza, e li ripagarono in moneta sonante.

C’è chi ha parlato di coincidenze, chi di maledizioni degli antichi artigiani. Io non so dire, ma penso che i leoni abbiano improvvisamente deciso, tutti assieme, che era arrivata l’ora di una sana lezione di vita. Che era giusto far propria una massima rivoluzionaria, e che se gli adulti si tiravano indietro di fronte ai giovani loro avrebbero provveduto a colpirne alcuni per educarne molti.

2007, inedito