PIEVE

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POLAROID

lunedì 4 febbraio 2008

DISTINZIONE A CHERASCO

Fu lunga l’attesa, lì nel freddo, mentre la sera si posava sul Borsalino sistemato con ordine sulla lastra di marmo, tra i due calici di vetro e ottone: parlava piano, con intenzione rotonda, pause, interiezioni, accenti interrogativi, ora qua, ora là, e non era un soliloquio ma proprio un colloquio, piano, sereno.
Ma lei non rispondeva, e Antonio Rocciolatto insisteva tranquillo, e la sera ormai padrona del cimitero trasse da quel fondo di nero, in basso, la figura prima indistinta poi come per magia già vicinissima, al suo fianco, del custode che lo invitava ad accomodarsi, a uscire, era già passato l’orario di chiusura.
Raccolse il cappello, sistemò i fiori, seguì l’uomo sino al grande cancello, si scusò affabile come sempre, salutò. Si chiedeva perché sua moglie non gli avesse risposto: sapeva bene che i morti non parlano ai vivi, gli era tutto chiaro, non aveva un temperamento mistico e non credeva a nessuna forma di magia. Aveva 73 anni e non era rimbambito. Ma con altrettanta pacifica sicurezza era acutamente consapevole di essere, lui, unico e insostituibile, diverso da ogni altro essere vivente, di essere nella sua assoluta normalità – e mediocrità, anche, aggiunse bonariamente tra sé- speciale e irriducibile a tutto il resto, insomma di avere per ciò stesso, come tutti del resto, diritto ad una distinzione, a qualcosa solo ed esclusivamente sua: e lui da tempo aveva chiesto che quell’unico diritto, quell’unica distinzione consistesse nella possibilità di continuare a parlare con la sua adorata compagna anche dopo la sua morte, la morte di lei, da tempo annunciata, da tempo prevista.
Le diceva ridendo, quando la malattia era ormai avanzata: “Stai tranquilla, non preoccuparti, ti farò compagnia anche dopo”, ed anche, facendo gli occhi cattivi: “Mi toccherà sopportarti anche dopo, accidenti…”, ed era tutto contento di quella distinzione, che sapeva di aver meritato per il suo amore, la sua dedizione, la sua rinuncia a tutto il resto.
Quel giorno –era il primo dopo il funerale che aveva dedicato a lei con calma, a tu per tu- rimase un po’ interdetto, ma si disse che ci voleva forse del tempo, e che i morti hanno l’eternità davanti e devono di nuovo abituarsi ai poveri tempi stretti dei viventi per parlare con loro.
Così, tornò più volte, povero Rocciolatto: divenne una presenza consueta, le sue visite ritmavano il tempo degli altri, dei visitatori distratti, e pure ignorando chi fossero Henry James e Gorge Stransom cominciò, come quest’ultimo aveva fatto dell’altare nella chiesa, a considerare quel giardino e quei vialetti come il verde e grigio sfondo di tutta la sua vita.
La sua pazienza non venne mai meno e quei colloqui senza risposta alcuna con la lastra su cui qualche lichene aveva cominciato a disegnare i segni di un alfabeto che gli restava ignoto erano diventati dal primo pomeriggio sino al buio della chiusura un particolare tra i tanti di una città di morti affollata di steli, statue, alberi e iscrizioni.
Un giorno capì e seduto su una panchina fumando pensò e ripensò a quanto era stato stupido a non arrivarci prima, e a come fare per rimediare, la mente ordinata e precisa già all’opera su alcune soluzioni possibili: quella distinzione invocata richiedeva da parte sua un’azione, come si preme un bottone per avviare una macchina, come si muove una mano per afferrare un bicchiere. Una azione semplice, ma che avrebbe richiesto discrezione, silenzio, segretezza.
La Macchina nacque dalle sue mani addestrate ad ogni lavoro e dal suo cervello. Il questore l’avrebbe poi definita “leonardesca”, ammirato come tutti dall’ingegnosità delle soluzioni meccaniche, dalla funzionalità del tutto, dalla semplicità geniale dei dispositivi.
Cherasco splendeva nella luce meridiana di un giorno di ottobre quando si presentò in anticipo recando alcuni strumenti che – spiegò al custode divenuto ormai suo amico- gli servivano per dare una sistemata intorno alla tomba, se, naturalmente non esisteva qualche disposizione di regolamento contraria, aggiunse con un fine e mesto sorriso. Le disposizioni esistevano, non si sarebbe potuto, ma vista la persona, la sua scrupolosità, la sua distinzione, certo nessuno avrebbe detto di no al Dottore.
Antonio Rocciolatto chinò la testa alla parola “distinzione”, assentendo modesto, e dopo una rapida chiacchierata con la moglie, che ancora non rispondeva ma presto lo avrebbe inondato di frasi, sistemò gli attrezzi in una cappella abbandonata e uscì senza farsi vedere dal custode. Tornò più e più volte, sempre con attrezzi che faceva finta di riportare indietro, inframezzando con visite normali il suo affaccendato andirivieni.
Quando fu pronto si nascose alla chiusura e si fece chiudere dentro e nel buio con movimenti esperti raccolse le parti disperse della Macchina, la montò, la posizionò e cominciò ad aprire le tombe e con allegria crescente, pensando a sua moglie, iniziò a spostare i morti, trasferendoli da una tomba all’altra, da una casa all’altra, incrociandoli, escogitando scambi, e disegnando nella notte linee invisibili: i tragitti dei morti, i loro piccoli viaggi, il loro movimento.
Aveva capito perché sua moglie non gli rispondeva. In quella città tutto era fermo, immobile, congelato in un tempo che non si intersecava in nessun punto con quello suo e degli uomini vivi. La sua mente scientifica ne aveva dedotto che occorreva alterare in qualche modo quello status, increspare le acque di quello stagno ghiacciato, creare una dissimmetria in cui lui avrebbe potuto far valere la sua distinzione, il suo essere speciale, il suo privilegio: quello di parlare non con i morti, ma con lei, solo con lei, sua moglie. Era quella la distinzione che si era guadagnato, e la Macchina gli avrebbe permesso di avvalersene: lavorò duro e i lumini accesi gli davano come un senso di ebbrezza, il sudore gli si incollava sul collo, e il geniale sistema per spostare le bare con pochi leveraggi e ben oliati meccanismi gli permetteva di effettuare sforzi che nemmeno quattro uomini in forma perfetta avrebbero potuto sostenere.
Uscì alla chetichella il mattino dopo e una doccia e un riposo gli permisero di tornare la notte seguente e poi quella dopo e quella dopo ancora e infine si trovò pronto per andare da sua moglie.
Poggiò il cappello, si tolse gli occhiali, rassettò i fiori, seguì un merlo che saltellava guardandolo, e poi le chiese, esitante ma pieno di gioia: “Come stai oggi?”. Attese la risposta. Attese in silenzio. Ripetè la domanda, sempre quella, attese ancora, e guardò un po’ confuso gli agenti che venivano verso di lui seguiti dal custode che lo indicava con il dito, e a quegli estranei che gli facevano domande provò ad opporre anche lui –anche lui- un silenzio ostinato e poi in questura trovò più gentile dire qualcosa a quei signori che lo attorniavano e riaccompagnato a casa restò fermo dietro la porta, pensando.
Il giorno dopo una macchina lanciata contro un camion si schiantò in una nebbia leggera, che lasciava vedere il cielo così azzurro.
I giornali ipotizzarono tutti concordi e sbagliando tutti che Antonio Rocciolatto si fosse ucciso per la vergogna di una inchiesta per quei morti spostati. Nessuno aveva capito che oltre che geniale quell’uomo si sarebbe alla fine della sua vita dimostrato anche intrepido e razionale sino alle conseguenze ultime ed estreme. Non fu vergogna – e di che? Avrebbe detto con il suo mite sorriso-ma solo la constatazione che se la Macchina non era servita, se la sua distinzione non gli aveva permesso di ottenere ciò che più desiderava al mondo, allora ne derivava, indefettibile, la necessità di usare altri mezzi, un’altra macchina, una porta diversa, e nel precipitarsi contro quel benedetto ostacolo la sua domanda era già pronta.

2008, inedito

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