PIEVE

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POLAROID

giovedì 7 febbraio 2008

POSTFAZIONE

Queste considerazioni nascono a margine di un saggio con cui Maurizio Portaluri, già Direttore Generale dell'ASL BAT di Andria, in Puglia, partecipa al dibattito in corso sullo stato della sanità pubblica in Italia, sul filo della propria esperienza di gestore, di medico e di cittadino.

POSTFAZIONE

UNA PREMESSA

Quando accettai l’offerta dell’incarico di direttore amministrativo di una ASL in Puglia mi trovavo a Bologna, dirigente di quella ASL, e al termine di una carriera che mi aveva visto ricoprire quasi tutti i ruoli che nella sanità pubblica sono disponibili per un non-medico: dal quello di provveditore-economo (allora si chiamavano così) in un grande ospedale romagnolo, prima ancora della riforma sanitaria del 1978, a quello di responsabile di uno dei primi centri elaborazione dati; da quello di coordinatore amministrativo in una USL del bolognese (nel frattempo erano nate le USL) a quello di amministratore straordinario in Liguria; e ancora direttore amministrativo a Rimini (ed erano appena nate le ASL) e poi direttore generale di nuovo in Liguria e infine direttore di distretto in Emilia.
Una carriera che aveva attraversato tutti i cambiamenti e i rivolgimenti istituzionali della sanità pubblica in Italia, a partire dalla riforma sanitaria che, non dimentichiamolo, arrivò dopo oltre un decennio di appassionato dibattito e rappresentò la prima grande legge di trasformazione e modernizzazione dello Stato.
Al posto di una pletora di enti e organismi scollegati tra loro –ospedali, consultori, manicomi, mutue, dispensari- disseminati senza logica sul territorio nascevano le USL, con una missione generale e universalistica: trattare i problemi di salute di una intera popolazione in maniera coordinata per offrire a tutti servizi uguali per tutti.
Fu una rivoluzione, di cui oggi è difficile cogliere il senso: razionalità e democrazia, prevenzione e servizi territoriali, eliminazione degli sprechi: tutto contribuiva a fare di quella legge, scritta bene e organica, una risorsa decisiva per il sistema paese e per il miglioramento delle condizioni di salute degli italiani.
Dopo la poesia venne la prosa: l’applicazione della legge fu più difficile del previsto, la costruzione delle USL, e la loro concreta organizzazione, in particolare si scontrarono con la mancanza di una diffusa cultura dell’innovazione e di strumenti di gestione aggiornati: il cambiamento si fece più faticoso, ma andò avanti. Due “riforme della riforma” modificarono diversi punti dell’impianto originario, scomparirono i comitati di gestione e il loro presidente e arrivarono i direttori generali, più volte cambiarono gli ambiti territoriali. Ora le USL sono diventate ASL, e il territorio, molto più grande, corrisponde quasi sempre a quello della provincia. In quasi trent’anni molto è mutato ma rimane sottotraccia l’impianto universalistico della legge del 1978, che ci è invidiata da molti paesi e che fa del nostro sistema sanitario pubblico, tutto sommato, un buon sistema.
Ma perché “tutto sommato”? Perché si poteva fare di più, si poteva fare meglio, forse si poteva fare prima. Proverò dopo a indagare alcune delle cause di queste che chiamerei insufficienze e non fallimenti, ma esse sono diventate per me e per tanti come me ragioni di insoddisfazione professionale.
Ed ecco perché – e torniamo all’inizio- tanti diversi incarichi, alcuni prestigiosi, tutti svolti nell’arco di un periodo importante di cambiamento ( non solo della sanità, ma della pubblica amministrazione) non avevano esaurito la voglia di provare ancora a misurarsi con un problema semplice in apparenza: come garantire equità, qualità e sostenibilità economica a un sistema che oggi, proprio per le sue debolezze, rischia una crisi di consenso.
Dunque il richiamo della Puglia. Perché la Puglia ha potuto ridestare –non solo in me ma in tanti altri al Nord- il gusto di una sfida per cui abbandonare sistemazioni comode, affrontare disagi, logistici, di famiglia, di rapporti consolidati da lasciarsi dietro le spalle?
E’ difficile forse capire l’attrattiva che il “laboratorio Puglia” ha esercitato su chi per mestiere fa il dirigente o l’amministratore nelle strutture sanitarie del Nord, se non si tiene ben presente l’impressione che fece l’avvento della Giunta Vendola quasi tre anni fa: un cambiamento imprevisto ma sostenuto da un vasto consenso popolare che si era formato proprio –ed era forse la prima volta in Italia- su temi che ci riguardavano da vicino: il destino del servizio sanitario regionale, il ruolo degli ospedali, il finanziamento del sistema, il desiderio di un rilancio e della modernizzazione delle strutture, il recupero delle professionalità degli operatori.
L’analisi che fa Maurizio Portaluri della sua esperienza, e le valutazioni critiche (ma mai disfattiste ed anzi venate di un ottimismo tenace) sulle contraddizioni del sistema sanitario, nazionale prima che pugliese, mi pare di condividerle totalmente, ma vorrei aggiungere alcune considerazioni appunto partendo da quell’entusiasmo che mi ha indotto a condividere un percorso accidentato eppure ricco di possibilità.
Un entusiasmo che poteva provare chi per l’appunto aveva sperimentato i limiti che l’applicazione della riforma aveva incontrato nel corso degli anni, che pure aveva prodotto molti e importanti risultati acquisiti. Soprattutto in Emilia-Romagna tali risultati si erano andati consolidando, e avevano dato vita ad un equilibrio tutto sommato soddisfacente: conti in ordine quasi ovunque, una buona efficienza e una crescente attenzione alla qualità, sia quella percepita che quella sostanziale. Cosa volere di più?
Per un tecnico della gestione (così noi burocrati ci sentivamo da tempo) ciò era molto, anche se non tutto. Ad una analisi meno centrata sull’efficienza dei processi e sull’equilibrio dei conti certo risaltavano punti deboli, alcuni preoccupanti.
Provo a riassumerli rimandando a quanto detto da Maurizio Portaluri. Innanzitutto l’inappropriatezza, cioè le prestazioni (di diagnostica, di ricovero etc.) inutili (e in alcuni casi proprio perché inutili anche pericolose), e di conseguenza i tempi di attesa dilatati, a cui si cercava di rimediare aumentando l’offerta e alimentando un ciclo vizioso che rischia di emarginare i più deboli.
Ma molte erano le cose buone fatte: soprattutto la visione d’insieme, di sistema, che risultava acquisita e scontata: distribuire in modo razionale sul territorio le risorse (gli ospedali, i consultori, gli ambulatori, ma anche le persone), programmare e prevedere gli effetti anche a medio e lungo termine delle scelte e delle decisioni. E poi il buon equilibrio raggiunto tra ospedali e territorio. Vengo da una esperienza, tutta vissuta nel corso di un decennio –gli anni novanta del secolo appena passato- in cui nel territorio di pianura tra Bologna e Ferrara ben 6 piccoli ospedali erano stati chiusi e riconvertiti: all’inizio tra le proteste della gente, poi con grande soddisfazione di tutti. Ospedali trasformati in residenze protette, in poliambulatori, in day-hospital, in punti in cui collocare i medici di famiglia, in cui posizionare le strutture di contatto con gli utenti (informazioni, prenotazioni, pagamenti).
E dunque pensavo, di fronte alle prospettive che si aprivano in Puglia, di poter dare un contributo mettendo a frutto il buono e il cattivo, le esperienze di successo e quelle non riuscite o non pienamente soddisfacenti.
In più circostanze speciali parevano offrire, nel mio caso, altri elementi di interesse. Venivo infatti chiamato in una ASL in costruzione, anzi che sarebbe nata dopo pochi mesi. La provincializzazione delle ASL, partita sia pure in ritardo anche in Puglia, imponeva che alla nuova Provincia, non ancora costituita ma anch’essa in formazione, corrispondesse una nuova organizzazione sanitaria. Si trattava di crearne una prendendo i “pezzi” da tre preesistenti ASL, e il tempo a disposizione per preparare l’evento era pochissimo: poco più di due mesi.
Era una sfida entusiasmante per chi già tre volte aveva lavorato ad accorpamenti e trasformazioni, e il cui ultimo incarico, anche se non come manager, era stato quello di lavorare alla nascita dell’ASL provinciale di Bologna, per costituire la quale non erano bastati 4 anni di lavoro. Lasciavo Bologna con gli stipendi ancora elaborati da tre diversi sistemi informativi, quante erano le precedenti ASL, nonostante un imponente sforzo di programmazione. Dunque arrivavo in Puglia con la convinzione che si potesse far meglio e più in fretta, prendendo lo spunto da quelli che io consideravo errori commessi al Nord e sfruttando quelle attitudini e inclinazioni, tante volte giudicate con sospetto se non criticate apertamente, che a torto o a ragione si ritiene caratterizzino l’impegno di chi lavora nel pubblico al Sud.
Ma queste erano le motivazioni soggettive, quello che mi attirava e sospingeva. Quali erano le condizioni oggettive, lo stato della situazione in sanità in Puglia? E soprattutto: è riuscito quell’innesto tra esperienze e culture organizzative?

LA PUGLIA VISTA DAL NORD

Un esame veloce dei documenti disponibili permette anche da lontano di farsi una prima idea della situazione: una prima idea per niente in linea con la visione pregiudiziale di un mezzogiorno indifferenziato, genericamente “arretrato”. Una rete ospedaliera a maglie strette, ospedali in molti casi recenti o addirittura recentissimi, una dotazione di cosiddette grandi apparecchiature (TAC, PET etc.) da far invidia talvolta a quella di regioni del Nord “ricco”, soprattutto la presenza di professionisti aggiornati e motivati, espressi da un sistema di formazione e ricerca forte e radicato. Insomma a prima vista il quadro di una regione ricca, con una offerta di servizi sanitari sicuramente squilibrata (troppi ospedali e poche strutture territoriali e poca prevenzione), ma ben dimensionata, con comunità locali attive e sensibili ai problemi di organizzazione sanitaria. La conoscenza diretta conferma l’impressione positiva, ma permette anche di cogliere alcuni aspetti particolarmente negativi, quelli cioè in cui le criticità e i limiti del quadro normativo ed organizzativo nazionale interagiscono con difficoltà o ritardi locali, creando sinergie viziose.
Ne costituisce un esempio emblematico, di cui parlerò tra poco,il ruolo della politica o il problema della libera professione dei medici, su cui non a caso Maurizio Portaluri si sofferma a lungo.
Ma infine: una parte grande e importante del paese, una regione poco più piccola ma più popolosa di una “nazione” come l’Albania, che si affaccia sul mare e che appare nel suo complesso moderna, sviluppata e dotata di infrastrutture (la rete stradale, che gioca un ruolo decisivo nell’articolazione dei servizi sanitari, ma anche quella digitale) e servizi, con una popolazione laboriosa e tenace, legatissima alla propria identità e alle proprie radici.
Dunque un terreno favorevole, in cui opportunità, risorse e carenze disegnano i contorni di un cammino possibile verso la modernizzazione e il miglioramento dei servizi sanitari.
Fu proprio così: scoprii con stupore che la ASL che si doveva costruire godeva almeno sulla carta di numeri di tutto rispetto, e che gli operatori su cui contare apparivano non solo motivati al cambiamento ma anche in possesso di strumenti tecnici e culturali di notevole rilievo.
Cambiamento: era la parola magica che animava le discussioni e gli incontri, la parola che rafforzava e orientava l’impegno di molti, soprattutto la parola su cui si era giocato l’esito dello scontro elettorale, e che si era andata caricando di attese messianiche, di voglie di rivincita.
L’impatto fu comunque assai positivo, e la mole di lavoro tale da costringermi – e come a me questo capitò forse anche ad altri- a concentrare gli sforzi sulle attività a “maggior valore aggiunto”: quelle cioè che presentavano le migliori chances di riuscita immediata. Il cambiamento delle direzioni fu innanzitutto, in tutta la regione, un cambiamento di stili di lavoro, di approccio agli operatori, di confronto con i poteri locali. Maggiore apertura all’esterno, maggiore trasparenza, contestabilità delle decisioni, disponibilità alla discussione, ripresa del confronto sindacale: tutti elementi che marcavano in senso positivo il nuovo corso, che ridavano voce ai dipendenti e ai cittadini.
Nel mio caso, poi, il grande problema della nascita di una nuova organizzazione, che metteva insieme e integrava elementi diversi, con storie prassi e regole differenti, sovrastava tutti gli altri. La costruzione della BAT, da questo punto di vista, rappresenta un caso esemplare, una storia di successo. Una dura esperienza personale (un eccesso di spirito regolatore e programmatore, una sottovalutazione dei problemi pratici, il desiderio di perfezionismo, che al nord hanno reso ingestibili operazioni del genere) si è potuta misurare con lo spirito di adattamento la fantasia e l’inventiva degli operatori: ne è scaturita attraverso rapidi aggiustamenti successivi una organizzazione nuova, che nel giro di poco più di un anno si è dotata di tutti gli strumenti necessari per operare (l’atto aziendale –una specie di statuto-, il nuovo organigramma, la nuova pianta organica, i nuovi regolamenti, l’immediata acquisizione delle professionalità riconosciute indispensabili), è riuscita ad allineare i sistemi informativi e ad avviare i processi di ricollocazione del personale. Il tutto mentre il Sole24ore celebrava per l’ASL di Bologna la riuscita della fusione su scala provinciale delle ASL preesistenti a distanza di (soli!) quattro anni dall’inizio del cammino.
La soddisfazione dell’obiettivo raggiunto in così poco tempo era poi ulteriormente aumentata dai processi di modernizzazione avviati nel rispetto delle indicazioni del cosiddetto codice della amministrazione digitale, che ci ha visto all’avanguardia in settori tante volte altrove trascurati. Insomma un bel risultato, il cui raggiungimento però lasciava pian piano trasparire l’esistenza di difficoltà sottostanti, meno facili da trattare.
Ed ecco prendere campo i problemi cui accennavo prima, quelli comuni a tutto il paese, ma singolarmente rilevanti in Puglia.

IL PECCATO ORIGINALE: IL RUOLO DELLA POLITICA

Maurizio Portaluri ne ha parlato. L’intromissione della politica nella gestione della sanità è una costante che indebolisce e rende poco credibile il sistema sanitario nazionale nel suo complesso. Il meccanismo di scelta dei Direttori Generali è tale da rendere quasi irresistibile la tentazione di usarli come cinghia di trasmissione dei desideri degli apparati politici regionali: si va dalla promozione di logiche di campanile, nel migliore dei casi, alla brutale imposizione di scelte spartitorie nel peggiore. La breve durata dell’incarico, la possibilità di revoca praticamente senza limiti (ancorata magari a criteri di severa oggettività di cui si sa per certo che non sarà possibile il rispetto- quale il draconiano obbligo dell’equilibrio di bilancio, che consegna i Direttori nelle mani della Giunta), la mancanza di un percorso di formazione che garantisca competenza tecnica “certificata” e capacità di relazione: tutto congiura a fare dei vertici aziendali dei referenti ben disposti nei confronti del potere politico.
In Puglia si è cercato almeno all’inizio di dare dei segnali in controtendenza: si sono chiamati in alcuni casi manager dall’esterno, da regioni considerate all’avanguardia nella gestione, sfruttando anche quell’effetto di attrattiva di cui parlavo all’inizio. Si è data importanza alla trasparenza e al confronto e al rispetto delle regole. Ma con particolarità che sin dal principio dovevano dare il segno di un processo sottostante che andava in tutt’altra direzione e destinato a riprendere man mano vigore.
Ne rappresenta l’esempio più forte il modo con cui sono stati scelti i direttori sanitario e amministrativo. La legge dice che li sceglie in totale autonomia il Direttore Generale: si tratta di una scelta che rappresenta la più gelosa prerogativa del Direttore, il modo principale a sua disposizione per contrastare e riequilibrare i prevedibili tentativi di condizionamento o in certi casi le resistenze dell’apparato. Sono scontati i suggerimenti, le raccomandazioni, i tentativi di influire sulla scelta, che rimane però, non solo formalmente, di esclusiva competenza del Direttore, che punta le sue speranze di successo su persone di sua assoluta fiducia, che ha avuto modo di conoscere o con cui ha addirittura già lavorato.
La designazione dei nomi è stata invece effettuata, in Puglia, direttamente dai partiti, secondo una logica di “contrappesi”: al Direttore Generale “in quota” ad un partito si affiancano figure “in quota” ad altri partiti. Quando dico “in quota” mi riferisco a figure di professionisti stimati, che non fanno ( o non fanno più) politica, ma che a torto o ragione (normalmente a ragione) sono considerati “vicini” ad un’area piuttosto che ad un’altra. Il risultato di questo meccanismo, che ha una sua logica, è stato lo screditamento del sistema nel suo complesso: da una parte la politica, che si intendeva rimuovere dalla gestione operativa, ritornava in grande stile, oltretutto per imposizione esterna, deprimendo ancor di più la già scarsa autonomia delle aziende sanitarie; dall’altra in qualche modo si confermava l’idea (per fortuna non sempre rispondente al vero, ma dotata di una forte carica di suggestione) che per “fare carriera” occorreva avere in tasca la tessera giusta, il che ha ridato fiato ad un altro vizio tutto italiano ma particolarmente praticato in Puglia: il trasformismo. La disponibilità a cambiare appartenenza e affiliazione è un’arma di difesa e di attacco la cui padronanza, al limite del virtuosismo, rappresenta uno degli intralci più seri per la modernizzazione e la responsabilizzazione del sistema sanitario regionale.
Nei giorni del grande mutamento, quando improvvisamente sono cambiati riferimenti politici consolidati e nuovi valori si sono fatti avanti sulla scena, i programmi di vera e propria “epurazione” che molti irresponsabilmente andavano figurandosi si sono scontrati con posizionamenti improvvisamente cambiati, con spostamenti di 180 gradi effettuati , da un giorno all’altro, con disinvoltura e serenità assolute, generando una confusione che per chi veniva da fuori assumeva toni francamente comici.
Dunque l’intromettenza della politica assume in Puglia forme peculiari, modi sicuramente più invasivi che nel resto del paese. Ma non basta. Intromettenza della politica significa anche, soprattutto per la classe medica, un continuo passaggio da un ruolo all’altro, spesso per incarichi istituzionali di assoluto rilievo. Non si contano i primari sindaci, che tornano a fare i medici, poi i sindaci, o che addirittura fanno le due cose insieme, mescolando il ruolo di controllore con quello di controllato, influendo da due lati diversi ma convergenti sull’opinione pubblica nella stessa città.
Si tratta di peculiarità che molte e diverse cause contribuiscono a determinare, ma che, sostanzialmente, possono riassumersi con la parola “notabilato”. Gruppi di interesse più affini alle consorterie e ai clan familiari che ai moderni gruppi di pressione o alle stesse organizzazioni partitiche, capaci di utilizzare l’associazionismo, i partiti, le istituzioni come puri strumenti, senza davvero identificarsi con nessuno di essi. Localismo esasperato, cooptazione, meccanismi identitari sono i contrassegni del notabilato, che operano anche in sanità, legando in particolare i medici il più possibile alla città di origine, e ove possibile addirittura (andando contro ogni buona prassi) scegliendo sul posto ed estraendoli dall’apparato i manager (in particolare i direttori sanitari e amministrativi).
E’ chiaro che in un contesto del genere diventa più difficile far passare i valori di una moderna azienda di servizi alla persona, far capire che la dimensione di riferimento non è più la singola città e il suo ospedale ma la provincia e una rete complessa e integrata di presidi, tra cui risaltano gli ospedali per ragioni storiche ma non eterne.

ALCUNI NODI

Ma i nodi principali, quelli che incidono davvero, in maniera strutturale, sull’assistenza sono altri, non così peculiarmente declinati. Se insomma la politica gioca un ruolo particolare in Puglia, non così si può dire della questione della cosiddetta umanizzazione, del ruolo dei Medici di Medicina Generale, della spinosa questione della libera professione dei medici dipendenti. Si tratta di problemi nazionali, alla cui soluzione sono impegnati direttori generali, studiosi, amministratori in tutta Italia, senza significative differenze.
Come nota Portaluri, parlare di umanizzazione in sanità rappresenta in realtà il riconoscimento preventivo di un insuccesso. La gentilezza, la disponibilità, la professionalità nella relazione; il decoro e la pulizia dei locali, il rispetto della dignità e della riservatezza; non rappresentano tutte queste cose la “forma” essenziale del servizio, il modo in cui deve inevitabilmente estrinsecarsi? Non è scontato? No, evidentemente, ed è appunto questa scissione tra forma e contenuto, in cui il contenuto ha sempre più assunto un aspetto tecnico e tecnologico, astratto, e spesso al limite del virtuale, è proprio questa scissione ad aver reso “disumana” la medicina.
Si ritiene che larga parte dell’umanizzazione da riconquistare risieda nel cosiddetto comfort, in quello alberghiero soprattutto, che è fatto, a dire il vero, anche di qualità della relazione (accoglienza, informazione, assistenza etc.). Il manuale sul comfort alberghiero messo a punto dall’Agenzia Sanitaria dell’Emilia Romagna si sofferma su questi aspetti: il grande albergo resta un punto di riferimento, per la disponibilità di spazio, per l’estetica, per la qualità dei servizi di supporto (pasti, servizi a pagamento, negozi etc.), per la possibilità di comunicare, etc. Farsi trattare come un cliente di riguardo pare un obiettivo auspicabile e desiderabile.
Ma il problema non è questo. Gli ospedali non devono assomigliare a degli alberghi: per questo ci sono già le case di cura. Gli ospedali – e soprattutto quelli pubblici- devono garantire, in modo austero e non accattivante, quelle condizioni di base di pulizia, appropriatezza dei locali, gentilezza, silenzio, rispetto, che sino alla prima metà del novecento, quando eravamo molto più poveri, le nostre strutture sapevano automaticamente garantire, senza doversi inventare programmi di umanizzazione e di miglioramento del comfort.
E la Puglia come si colloca? Sul crinale tra vecchio e nuovo le sue strutture sanitarie forse non sanno essere né l’una né l’altra cosa: né moderni asettici e mediatizzati (senza schermi televisivi appesi alle pareti oggi non sembra darsi comfort) centri di salute, ma neppure antiquati e “poveri” (poveri di stimoli, poveri di ciarpame tecnologico, poveri di abbellimenti non funzionali) strumenti di cura. Non voglio fare l’elogio delle corsie e delle suore, ma forse occorre far tesoro di quelle che possono sembrare condizioni di arretratezza, evitando di imporre ad ogni costo modelli organizzativi, di relazione, di servizi di contorno che sono estranei alla mentalità e alla cultura degli operatori e alla missione stessa delle strutture.
Dunque dare valore al modo non proceduralizzato e apparentemente poco professionale con cui in molti ospedali si instaura il rapporto con il cittadino, “rinegoziare” in qualche modo le talvolta assurde prescrizioni sulla privacy rivalutare le “vecchie” strutture quantomeno per le funzioni meno specialistiche e a minore impatto tecnologico. Ripristinare, magari con altri termini, la vecchia distinzione tra ospedali di base, provinciali e regionali permetterebbe in Puglia di valorizzare molti piccoli ospedali, uscendo dalla falsa alternativa tra chiusura e ristrutturazioni pesanti per cui non ci sono le risorse, ma soprattutto relegando il mito dell’”eccellenza”, in nome del quale si distorce la programmazione sanitaria in funzione più dei medici che dei bisogni della popolazione, nel cassetto dei vecchi arnesi.
Caratteristiche ambientali e culturali, il diverso ruolo della famiglia, i vincoli di solidarietà e la profonda umanità dei pugliesi: tutto ciò potrebbe servire ad innescare un processo di ripensamento di cosa significa assistenza sanitaria pubblica, proprio a partire dal Sud, certo incrociando con le buone esperienze e i risultati acquisiti in altre regioni (e basta pensare alla prevenzione, pressoché sconosciuta in Puglia quantomeno nella sua versione “di massa”).

TRE DOMANDE

Maurizio Portaluri mi rivolge però tre domande puntuali e molto difficili: tre domande cui tentare di dare una risposta mettendo a frutto una esperienza tutta giocata altrove, in un Nord spesso idealizzato ma certo diverso.
Perché, innanzitutto, non si riescono a fare le cose che si fanno al Nord. Credo che una parte della risposta stia nelle considerazioni fatte a proposito del ruolo della politica, in quell’opera di intromissione che si traduce poi, assai spesso, in un meccanismo di interdizioni incrociate. Ma si tratta certamente solo di una spiegazione parziale. Altri motivi vanno ricercati nella configurazione stessa degli apparati pubblici, nel modo in cui è strutturata la burocrazia, che ha interpretato storicamente, qui più che altrove, un ruolo di gestore di flussi di spesa derivati. La finalità principale di questa burocrazia è stata, per essere più chiari, quella di intercettare risorse finanziarie trasferite al Sud, attraverso strumenti come la Cassa del Mezzogiorno, che non hanno responsabilizzato le classi dirigenti locali, sempre alle prese con una negoziazione continua, fatta di richieste assillanti rivolte ad uno Stato considerato lontano. Anziché sviluppare capacità imprenditoriali e progettuali sul posto per molti anni ci si è limitati ad un ruolo passivo di postulanti che ha prodotto quell’effetto di dispersione e di utilizzo irrazionale delle risorse che sta alla base delle tante cattedrali nel deserto, delle strade che non portano da nessuna parte e non servono a nessuno, degli ospedali inutili, ancorché completati. Qualunque idea andava bene, pur di giustificare magari ex post le somme messe a disposizione.
La situazione oggi è cambiata, soprattutto in Puglia, ma la scarsa propensione a gestire tutto insieme il processo, a sorvegliarne le diverse fasi sino alla conclusione dell’opera o del progetto è in qualche modo rimasta. La convinzione che i finanziamenti disponibili producano comunque occupazione, al di là della loro finalizzazione, rende ancora oggi difficile ottenere risultati paragonabili a quelli conseguiti in altre zone del Paese. In sanità troppo spesso buone intenzioni e buoni progetti si arenano non appena effettuate le assunzioni che costituiscono la condizione per realizzare il progetto, che rimane non raggiunto.
Se si considera poi che questa “tara” originaria investe apparati ancora largamente imbevuti di una cultura giuridico-formalistica, che procede per atti e sulla base di una logica degli adempimenti e delle competenze, si comprende facilmente quanto difficile sia il cambiamento. Senza scomodare aspetti più propriamente antropologici è la storia degli ultimi secoli che fa di quello che ancora Croce chiamava “il Regno” una cosa a parte rispetto al resto dell’Italia.
Più difficile la seconda domanda: perché i manager venuti dal Nord sono stati messi, non sempre è vero, ma spesso, nella condizione di andarsene.
In questo caso si potrebbe pensare che la risposta stia semplicemente nel modo con cui la politica si relaziona con gli apparati locali, soprattutto in sanità. Eppure è stata la stessa politica a farli venire, a sceglierli e a insediarli in posizioni di rilievo. Credo che in questo caso giochino un ruolo importante proprio i processi di rinnovamento che sono comunque all’opera, che attraversano gli schieramenti, e che talvolta affiorano alla superficie per poi di nuovo tornare a lavorare sotto traccia. Una classe politica che faticosamente e tra contraddizioni e ripensamenti va modificandosi ha giocato una carta in una partita complessa in cui l’esito non è scontato. Ritengo insomma un fatto positivo che il tentativo sia stato fatto, e l’indubbio arretramento verificatosi lo imputo a difficoltà forse sottovalutate all’inizio ma non necessariamente destinate a prevalere: difficoltà finanziarie innanzitutto, legate al ritardo con cui è stata messa mano alla riorganizzazione del sistema sanitario regionale e alle troppe promesse fatte, ma anche difficoltà dovute alla povertà degli apparati (a cominciare da quello dell’Assessorato e dell’Agenzia sanitaria), al loro assetto tradizionale, alla loro incapacità di svolgere quelle funzioni di supporto e di propulsione che il ripensamento del sistema sanitario regionale richiede. I direttori venuti dal Nord hanno spesso forzato la situazione nel tentativo di venire a capo di un problema che richiede anni per la sua soluzione, inserendo professionalità nuove, non metabolizzate dalle tecnostrutture, non di rado viste come estranee e interferenti con la consueta e rassicurante routine, ricorrendo a specialisti o a consulenti che hanno destato allarme e risentimenti.
E’ l’orizzonte temporale di riferimento che non permette quel procedere lento ma sicuro che sarebbe necessario. I tre anni a disposizione, come ho già detto, sono a stento sufficienti per un moderato restyling, e resta del tutto irrealistico l’obiettivo, ad esempio, di razionalizzare l’offerta qualificando gli ospedali meglio attrezzati e posizionati, costruendo sul territorio una rete credibile e funzionante di strutture di primo livello.
Lo stesso quadro di riferimento programmatorio è confuso, e basti pensare al fatto che lo strumento fondamentale, il piano sanitario regionale, a distanza di quasi tre anni dall’insediamento della nuova giunta non è ancora pronto.
In queste condizioni è difficile pensare che gli “uomini del Nord” possano fare meglio dei tanti professionisti locali ben disposti al cambiamento.
La terza domanda è oltre che difficile insidiosa: mi si chiede che cosa, secondo me, bisogna cambiare, e l’insidia è in quel “secondo me”, che rischia di dare spazio eccessivo a quel soggettivismo riformatore in cui noi italiani siamo maestri.
Se stiamo ai fatti e ad una valutazione spassionata della situazione credo che un credibile e pragmatico percorso di cambiamento debba partire dalla “testa”: potenziare e organizzare i servizi dell’Assessorato e della Agenzia Sanitaria è un passo indispensabile, che condiziona tutto il resto. Il più importante centro di spesa della regione, quello cui fanno capo decine di migliaia di operatori della sanità è oggi sostanzialmente impotente e riesce ad assolvere solo un ruolo burocratico e autorizzatorio, cioè precisamente quello che non serve per innescare e favorire il cambiamento. Anche modificare l’assetto di vertice con figure di livello professionale riconosciuto e soprattutto non coinvolte nella passata gestione appare decisivo. Il grave ritardo nell’approntare gli strumenti di programmazione necessari e l’insistitente predisposizione di minuziosi regolamenti di dettaglio, che eliminano nei fatti, nella gestione anche quotidiana, ogni autonomia gestionale, sono le due facce dello stesso problema: l’insorgere di un neocentralinismo “straccione”, cioè arruffone e incapace oltretutto di svolgere seriamente il proprio compito.
Ma non basta: occorre anche dare più autonomia alle Aziende e assicurare loro stabilità di direzione, garantendo almeno per cinque anni gli incarichi di vertice, e allineando ad essi tutti gli altri.
Ma soprattutto occorre tagliare alla base la malapianta della ricerca del consenso tramite forme più o meno mascherate di assistenzialismo e della deresponsabilizzazione dei dirigenti attraverso l’abolizione pura e semplice della pianta organica: strumento perverso che impedisce di utilizzare le risorse in modo efficiente, prevedendo cervellotiche “dotazioni” di personale scardinate da ogni corrispondenza con i volumi di attività, e al tempo stesso costituisce un alibi insuperabile per giustificare inerzie incapacità ritardi.
Dunque poche cose ma semplici e fattibili con strumenti amministrativi e al massimo una legge regionale: riorganizzazione dell’Assessorato e dell’Agenzia, qualificazione e potenziamento degli addetti, incarichi quinquennali per i direttori e allineamento di quelli dei loro collaboratori principali (primari, direttori di dipartimento, capiservizio), eliminazione della pianta organica e libertà di assumere secondo necessità nel rispetto del budget. Già questo costituirebbe una piccola rivoluzione capace di dar vita a fenomeni emulativi e virtuosi. Altre cose da fare sono invece più complicate e richiedono un deciso e coraggioso ripensamento a livello nazionale. Mi riferisco innanzitutto alla libera professione dei medici del servizio sanitario nazionale. Mi associo semplicemente alle cose che dice Maurizio Portaluri: la possibilità di effettuare libera professione va eliminata.
In tutte le sue forme, anche in quelle mascherate pudicamente nei contratti nazionali, quindi non solo la libera professione vera e propria e quella cosiddetta “intra-moenia” (il latinorum serve ancora, direbbe Manzoni), quella cioè esercitabile dentro le strutture pubbliche, ma anche le cosiddette “prestazioni aggiuntive” e i “turni aggiuntivi”, che cosnsistono nell’”acquisto” a tariffe sindacali di ore o prestazioni in più e oltre il normale orario di servizio.
Prestazioni e turni aggiuntivi furono introdotti per abbattere le liste d’attesa e hanno avuto l’effetto esattamente opposto: quello di allungarle o comunque lasciarle inalterate.
L’interessata riduzione dell’attività durante l’orario “istituzionale” ha difatti come conseguenza (in Puglia quasi automatica) quella di rendere necessario quel sovrappiù di attività che pemette di integrare in modo significativo lo stipendio. Stiamo parlando di cifre consistenti. Per l’ASL in cui lavoro si prevede per il 2007 di sfiorare i nove milioni di euro.
Non credo ci sia molto da aggiungere sulla libera professione: è un tema tante volte affrontato e altrettante rigettato quando emerge la proposta dell’esclusività assoluta dei medici. Ragioni deontologiche, etiche ma anche banalmente imprenditoriali (se davvero le ASL fossero anche delle imprese) esigono la soppressione di un privilegio che non ha motivo di esistere e che condiziona in negativo il servizio pubblico.
Un altro tabù è rappresentato dal rapporto con il servizio sanitario nazionale dei medici di famiglia. Una volta chiamati medici di base ora medici di medicina generale: sono cambiati i nomi, e anche le modalità dei loro compensi, ma non la sostanza. Si tratta di medici che hanno retribuzioni certe e garantite, compiti affidatigli dallo stato, ruoli formali nel servizio sanitario e dunque in possesso di tutti quei requisiti che danno vita ad un rapporto di dipendenza: ma restano liberi professionisti. O meglio, utilizzano il meglio dei due mondi, la stabilità economica e di sede della dipendenza e la libertà e l’autonomia della professione. Il risultato è che ogni tentativo di intervenire sulle modalità prescrittive, sugli obblighi informativi, sulle modalità di erogazione del servizio si scontrano con il loro status di medici non dipendenti. E’ arrivato il momento –ed è questa l’altra grande riforma da realizzare per rivatilizzare il SSN- di inserirli nel sistema a pieno titolo, come professionisti dipendenti e dunque con l’obbligo di rispondere al loro datore di lavoro uniformandosi – con tutte le cautele e le peculiarità del ruolo specifico- alle regole alle direttive e alle strategie come tutti gli altri.
Che altro? Poco, parlando di cose fattibili senza rivoluzionare il sistema. Forse aiuterebbe (ma l’ingegneria istituzionale, in cui siamo maestri, maschera spesso una tenace volontà di lasciare comunque tutto come sta) ridisegnare il sistema delle relazioni con i poteri locali: dare più peso ai Sindaci, coinvolgerli nella gestione – e dunque anche nell’obiettivo di far quadrare i conti- servirebbe senz’altro ad evitare le fughe in avanti e la difesa di posizioni di retroguardia che oggi sono consentite dal loro ruolo di “indirizzo” nella Conferenza dei Sindaci. Ricordo in Liguria un sindaco che difendeva a spada tratta il mantenimento in esercizio del “suo” ospedale di venti posti letto, i cui costi andavano affondando l’intera ASL, beatamente ignaro di ogni considerazione anche di sicurezza dei pazienti.
Ripristinare un vero e proprio “consiglio di amministrazione” potrebbe aiutare i direttori generali nella difesa della loro tanto minacciata autonomia gestionale.
Alcune messe a punto tecniche nei meccanismi che regolano i concorsi per gli amministrativi potrebbero poi dare risultati assai importanti, anche se non facilmente valutabili dai non addetti ai lavori.
Oggi se ho bisogno di un responsabile del bilancio penso ad un professionista esperto di analisi finanziaria, di programmazione, di sofisticate procedure informatiche, di fisco: ebbene, per selezionarlo devo fare un concorso in cui si chiede la conoscenza del diritto amministrativo, di quello costituzionale, di quello sanitario.
Per cercare un responsabile delle risorse umane, idem. Per cercare un dirigente della comunicazione e marketing, idem. Gli esempi si possono moltiplicare, ma in sostanza non posso definire le materie e gli argomenti su cui testare davvero capacità e conoscenze dei candidati. E questo spiega perché, con grande scandalo del pubblico male informato, si cerca di ricorrere ogni volta che si può ai consulenti, agli incarichi atipici etc.
Poter tornare a reclutare le persone competenti in modo trasparente e aperto a tutti: basterebbe questo per far cambiare fisionomia al nostro sistema nel giro di 5 anni.

IN FORMA DI CONCLUSIONE

Le tre domande di Maurizio Portaluri restano forse senza risposte davvero soddisfacenti. Ma credo che questo dipenda dalla complessità e dall’intrico delle questioni, e dal fatto che tutte rimandano ad altro, ai grandi temi del rinnovamento della società italiana, della politica, delle regole generali della convivenza.
Lavorare oggi nella sanità pubblica significa collocarsi, in maniera più esposta che altrove, sulla linea di contatto e di scontro tra logiche degli apparati e logica del servizio. Gestire meglio questo ruolo potrebbe aiutare a dare un contributo alla riforma della pubblica amministrazione, che è iniziata, lo ricordavo all’inizio, proprio con la legge di riforma sanitaria. Prenderei sul serio l’invito a partire dalla persona: quella malata e quella che non vuole ammalarsi. La “centralità della persona” è diventato uno slogan, una parola d’ordine, talvolta un semplice claim pubblicitario, cui non corrisponde alcun vissuto.
Recuperarlo, quel vissuto, mettendoci al posto di quelli per cui lavoriamo: ecco quale sarebbe un utile esercizio spirituale, da ripetere ogni giorno.

da La sanità malata. viaggio nella Puglia di Vendola, di Maurizio Portaluri, prefazione di Michele Di schiena, postfazione di Gian Luigi Saraceni, Glocal editrice, Lecce 2008





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