PIEVE

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POLAROID

lunedì 4 febbraio 2008

LAMINE E SOGNI

Per Nicola Zamboni, scultore

Un sottile frammento di latta, poi un pezzo di rame, che brillava rosso nella mano come un fuoco segreto. Ricordava la sensazione di allora, poco più che bambino: di pulito, di concluso, di pefetto e il primo piacere: torcere piegare modellare poggiare su un oggetto più duro ed imitarne sommariamente la forma. E l’odore. A quei tempi non sapeva che i metalli non hanno odore, e ne aspirava un freddo ristoro nei pomeriggi bruciati da quel sole padano.
Ma fu la luce a catturarlo per sempre, i bagliori impassibili che le superfici emettevano.
Fu così che Nicola Zamboni ignorando di essere uno scultore cominciò ad adorare le forme, e la replicazione infinita che l’universo gli offriva. A scuola seppe che esistevano uomini che di quella sua frenesia, di quella sua ansia di copia, avevano fatto un mestiere, forse una vocazione, obbedendo alla quale talvolta erano diventati famosi, più spesso erano rimasti ignorati da tutti; che delle cose che le loro mani avevano costruito si parlava come di opere, di oggetti il cui senso diventava argomento di storie, di interrogazioni, di stupore, di godimento.
Più grande vide ad una mostra che intorno alle sculture esposte i visitatori si fermavano e in alcuni di essi scorse nello sguardo il lampo di un riconoscimento, come se improvvisamente si trovassero davanti ad uno specchio, o a una finestra affacciata su un altro mondo, e decise che avrebbe fatto quello anche lui, sarebbe diventato uno scultore.
Ripensandoci, gli venne in mente quel motto di Nietzsche, posto in epigrafe a Ecce Homo: diventare ciò che si è. Ecco, si diceva, il compito più difficile per un uomo, non tradire sé stesso, e la grande casa nella campagna tra Bologna Modena e Ferrara, ingombra di attrezzi, lastre di metallo, banchi di lavoro, paranchi e, tra quella confusione spiccanti come frasi compiute percepite in mezzo al brusio, loro, le sculture, in diverse fasi di allestimento, quella casa gli sembrava non un porto di rifugio ma una base operosa da cui muovere incontro al mondo, in cui scambiare messaggi, discorsi, alimentare disegni, sostenere sfide.
Era vecchio e si sentiva giovane come quando stringeva la mano intorno a quelle lamine sottili, la luce così lenta dell’inverno padano gli si animava intorno in baluginii inaspettati, ed ora –ne era orgoglioso- splendeva intorno anche a quelle superfici difficili che tanti anni prima gli erano sembrate mute, fatte di materie più sorde: la terracotta, il marmo, il legno, tutto quello che aveva scoperto col tempo possedere dentro di sé la capacità di illuminare chi guarda.
Il suono gioioso del metallo gli era stato dato ascoltarlo e poi riprodurlo in quella sua furiosa epoca di apprendistato con Quinto Ghermandi, ma il resto, la lotta con la materia opaca, era frutto del suo testardo cercare e gli amici che aveva pazientemente rifatto, e le donne che aveva amato, e quella che amava adesso, se erano finiti tutti insieme ad animare un discorso ininterrotto riuniti in gruppo paziente in un giardino pubblico, se avevano avuto la forza di interpellare ogni giorno i passanti, era perché lui era stato capace di catturare la luce che li sfiorava trasformandola in domande:”chi sei?” chiedevano beffarde le grandi statue in terracotta di Pieve, “chi sono?” dicevano e il gioco dei riconoscimenti ricominciava ogni giorno.
Ma adesso era la volta dei sogni, e il sogno della notte appena trascorsa lo aveva chiamato all’impresa più difficile, pensava, e soppesava accarezzandole delle grandi lamine di bronzo, e il rosso gli imporporava la faccia. Come un tempo, ma non per tentare forme indecise, e neppure per costruire grandi figure, assemblando, unendo, completando, chiudendo. Adesso era per togliere, alleggerire, bucare, traforare, rendere vibranti e impalpabili le cose più semplici, quelle per cui solo alla fine di un lungo cammino ci si sente pronti, quelle la cui banale riconoscibilità domanda il rispetto dovuto al privilegio di essere vivi in un mondo così implacabilmente bello.
Come per un fiore, un’onda, la luna tra i rami. Si sarebbe pazientemente consacrato, per sempre, alle foglie.

2008, inedito

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