Come
Una baccante, languida di danze,
in un prato si lascia cadere,
e lì giace;
quale Arianna quale Andromeda
abbandonate nel sonno,
così,
fu da me vista
Cinzia
quietamente spirare, mollemente dormire,
mentre i servi stanchi agitavano le fiaccole:
notte alta,
e io la guardavo
trascinando per la stanza i miei passi
ubriaco
la guardavo, tenendo il capo tra mani malferme.
No,
non ero fuori di me;
lei io
cercai d’accostare sul letto,
premendolo leggermente,
e due dei mi bruciavano
-il vino e il desiderio di lei-
avrei voluto
insinuando la mano, lievemente toccarla,
lievemente carpirle dei baci,
avrei voluto afferrare le armi d’amore;
tuttavia non osavo destarla
dalla sua quiete:
io la temevo.
Ma gli occhi tenevo fissi nei suoi,
nel suo viso;
e scioglievo dal mio capo corone di fiori
e sul tuo, Cinzia,
le posavo,
e provavo piacere a comporle i capelli sciolti,
e a disfarli,
e ponevo mele nelle tue mani
furtivamente,
ogni dono elargivo al sonno
indifferente, doni che sovente
sgusciavano dalla tua veste allentata.
E talvolta,
se traevi un sospiro,
un sussulto,
pensavo a vani presagi,
temevo che qualcuno ti volesse far sua; e tu non volevi;
ma la luna rapida lungo le finestre
scivolava,
la luna
il cui chiarore indugia,
sinché un raggio di lei
ti aprì gli occhi chiusi dal sonno…
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