PIEVE

PIEVE
POLAROID

domenica 1 novembre 2009

JOSEPH BEN MATTHIAS

Joseph Ben Matthias si sporse dalle mura e osservò il piccolo drappello di cavalieri che li teneva sotto osservazione e improvvisamente si accorse dell’ordine perfetto con cui si erano disposti, dei colori uniformi delle vesti che indossavano, dei piccoli scudi tutti uguali appesi alle selle.
Tutti uguali, tutto in ordine, tutti schierati in fila senza che nessuno comandasse o gridasse: era questo il segreto di Roma? L’ordine, l’efficienza, l’organizzazione?
Buffo, pensò, non mi aveva tanto colpito la potenza di Roma quando vi ero arrivato ed ero stato presentato a Nerone. La magnificenza dei palazzi, l’enormità della città, una corte imperiale al cui confronto quella di Agrippa pareva una cosa misera, tutto mi aveva colpito ma non intimorito. Ed ora pochi cavalieri, un particolare insignificante di quella macchina di potere e dominio, mi fanno esitare…
Si sfilò la spada dal collo, ne strinse l’elsa, provò a ricordare quello che aveva provato quando aveva deciso di unirsi agli insorti, di ritagliarsi un ruolo di comando in una guerra che gli era parsa gloriosa. Gloriosa e vittoriosa. In fondo chi avrebbe pensato che per pochi giudei in una remota provincia ci si sarebbe tanto dati da fare? Un compromesso, una indipendenza formale sotto il protettorato di Roma: un accordo, come non trovarlo?
Il trambusto che saliva dal vicolo che portava alla postazione sulle mura fu improvvisamente presente alla sua mente come un monito beffardo: eccoli lì, si disse, a litigare tra loro, a disputare di strategia, a contestare i pochi che sanno di armi e battaglie e che provano a dare ordini.
La piana lungo le sponde del lago era una vista magnifica, e noci fichi e palme punteggiavano quella cortina verde che si parava ai suoi occhi e gli ricordava imperiosa una pace operosa. In fondo perché non trovarla e cullarla sotto lo scudo di Roma come avevano fatto tutti i popoli che conosceva? In quella distesa silente piante tanto diverse prosperavano insieme come nell’impero da cui aveva voluto, lui assieme a tanti altri, prendere orgogliosamente le distanze.
Si riscosse e sospirando guardò gli armati schierati lungo quel tratto di mura: ognuno abbigliato in modo diverso, alcuni con protezioni raffazzonate, qualcuno con pezzi di armatura sottratti chissà dove, tutti con spade archi daghe giavellotti distribuiti senza senso. Pastori, pescatori, mercanti: ecco cosa erano e il febbrile entusiasmo con cui brandivano le armi insolentendo e minacciando gli imperturbabili cavalieri, laggiù, fermi in quell’ordine gelido e tranquillo, gli fece tenerezza e rabbia.
Magdala brulicava di guerrieri improvvisati, di geniali strateghi, di profeti vaticinanti, di popolani indifferenti al delirio degli zeloti e pronti a scendere ad ogni compromesso. Una turba, non un popolo. Una voglia non un progetto li guidava. Neppure un’ombra di strategia e di coordinamento tra città che si odiavano.
E mentre ripensava alle astuzie di cui aveva dato prova a Tiberiade, e non sentiva più l’usato orgoglio, si accorse di guardare con stupefazione le gambe di un ragazzo avvolte da schinieri, come un eroe omerico.
Fu quello il colpo che lo trafisse e lo indusse a lasciare risolutamente la città condannata: da quale tempio, da quale passato, da quale idea, erano emersi quegli schinieri? Per fronteggiare soldati di professione, macchine da assedio, tattiche di combattimento messe a punto in secoli di esperienza, sistemi di trasporto e di vettovagliamento che macinavano centinaia di miglia come niente, con quale coraggio un ragazzo poteva ricorrere a degli schinieri?
Non passarono molti giorni da quella fuga mascherata da ragioni di guerra: Vespasiano si era accampato e fortificato con tutta la perizia e la prudenza che aveva fatto la gloria delle legioni, e suo figlio Tito non tardò ad effettuare una dimostrazione in armi sotto le mura con seicento cavalieri.
A migliaia uscirono da Magdala e si schierarono a caso di fronte alla città, mentre ancora fervevano, tra i capi o tra coloro che si credevano tali, le discussioni sulla strategia da adottare. Erano tanti contro pochi, erano troppi, erano condannati. Ricacciati indietro e fatti a pezzi si rifugiarono verso luoghi che non erano stati previsti, predisposti, organizzati al bisogno, chi verso la città, chi verso il lago, e solo con grande fatica riuscirono grazie al numero a trovare requie.
E mentre nella città rialzavano la testa i tanti che volevano arrendersi, e il confronto si faceva più aspro e si poneva mano alle armi, Tito individuò con occhio sicuro il punto in cui gli sforzi di Joseph ben Matthias, comandante ben intenzionato e incapace, intellettuale inutilmente prestato alle minuzie e alle sottigliezze della guerra, non erano riusciti a completare la missione che si era sconsideratamente dato di fortificare la città. Dalla parte del lago le mura erano incomplete perché tutti avevano considerato impossibile un attacco in forze da quel lato. E come a Masala, dove di lì a pochi anni si sarebbe dimostrato che non esiste luogo imprendibile per un popolo di ingegneri edificatori e muratori, così, con tanta maggiore facilità, a Magdala si parò di fronte agli attaccanti un mezzo per forzare l’ingresso.
Oltre seimila furono i morti: e molti furono coloro che si illusero, salendo sulle barche che erano pronte, di essere scampati ad un esercito che non aveva con sé alcuna imbarcazione. Con ordine e imprevista perizia i genieri si diedero a costruire zattere su cui presero posto i soldati e da quelle piattaforme, stabili e sicure, massacrarono con metodo e professionalità gli improvvisati guerrieri, che nel momento supremo, di fronte alla morte, tornarono per un attimo contadini pastori pescatori e mercanti.
Joseph ben Matthias, sopraffatto dal rimorso, dimenticò pian piano di essere stato un generale inetto. Riuscì ad evitare la morte per mano del nemico e il suicidio cui alla fine si abbandonarono gli ultimi scampati grazie alla sua esortazione a non togliersi da sé la vita, ma a farsi uccidere ognuno da un compagno. Rimase ultimo e vivo. E perdonato divenne, da allora, Flavio Giuseppe.
Quanto agli altri, agli innumeri altri, senza nome, non fu per il coraggio dimostrato, che non vennero dimenticati, ma per la follia di porsi contro Roma senza una strategia militare, senza preparazione, senza alleati. Fu il pressappochismo e l’orgogliosa incapacità di fare della guerra un mestiere a consegnarli alla storia e alla nostra stupita memoria.
inedito

Nessun commento:

Posta un commento